Per prepararmi dignitosamente al
concerto di giovedì sera a Milano e approfittando del lungo viaggio di
rientro dall'Overtime Festival di Macerata, ho ascoltato
ripetutamente l'ultimo album di Morrissey, World Peace Is None of
Your Business.
Tranquillizzo
subito i miei quattro lettori: non ho alcuna intenzione di
trasformarmi in critico musicale, ma voglio divertirmi a farlo per
una volta, soprattutto per affetto (diciamo pure amore) nei confronti del Moz e anche per
cercare di mettere un po' di ordine tra recensioni (vedi link in coda) piuttosto contraddittorie: anche se la vulgata racconta di una critica
abbastanza perplessa, si possono trovare in rete non poche review
entusiastiche, tanto che il risultato complessivo sarebbe omologabile
a un pareggio, o persino a una vittoria di misura.
Le critiche prevalenti si soffermano
sull'eccesso di toni spagnoleggianti e sull'eccessiva durata di
alcuni brani, specie di un paio di brani non particolarmente
riusciti, come se il Moz avesse tentato di convincerci sulla qualità
dei pezzi prolungandone la somministrazione. Cosa che, chiaramente, non funziona. Va detto che nell'intero corso della sua carriera
solistica il nostro ci aveva già regalato cinque brani monstre
sopra i sette minuti e mezzo: e assieme a due piccoli capolavori come
Late Night, Maudlin Street
e Life Is a Pigsty, in
questo novero (che comprende anche la quasi title-track
di Southpaw Grammar e
la stilosa, ma abbastanza inutile, cover di Moon River) si
staglia The Teachers Are Afraid Of The Pupils
(ben 11:20!), brano meno riuscito dei primi due, ma che si fa se non
altro apprezzare per il testo e per l'appropriata cupezza
dell'orchestrazione. Ma questi erano i brani oversize del passato.
I'm Not A Man, la
lunga traccia numero 3 dell'ultimo album, invece alterna una strofa
di scarsa personalità a un ritornello decisamente brutto, con lo
statement del titolo
ripetuto ossessivamente sul battere delle casse, quasi duplicando gli
esiti tutto sommato sgradevoli di It's Not Your Birthday
Anymore. Persino l'esile spunto
del testo (che tanto entusiasma il recensore di Repubblica): “se
questa è l'umanità, allora io non sono un uomo” (così come Gaber
non si sentiva italiano), viene tirato via con una mera enunciazione
del concetto preceduta da un'elencazione asindetica di cattivi esempi
dell'uomo (ma diciamo pure del maschio) del giorno d'oggi.
Senza
arrivare ai 7:49 di questa I'm Not A Man, altri
quattro brani (tra i dodici totali dell'album, non ho ancora sentito i sei dell'edizione deluxe) supereranno i cinque minuti, ma
partiamo dall'inizio.
L'album
si apre con la title-track.
Anche qui, come in I'm Not A Man,
la strofa ha un andamento giocoso pur trattando di temi tosti come
l'esproprio del destino dei cittadini operato dalla politica fino all'esito bellico (incarnato, nel testo, in un elenco di nazioni). Gli spunti inizialmente sarcastici “Work
hard and sweetly pay your taxes / Never asking what for”
e in seguito drammatici delle liriche qui però si conciliano molto
meglio con la progressione verso il rock. Tra i brani passati il parente più prossimo, ma solo per i temi toccati, è America
is not the World, e si potrebbe
aprire un discorso su quanto sia presente, nella poetica di Morrissey
la parola world (which is, by the way, full of crashing bores).
Neal
Cassady Drops Dead
è, a detta
di molti, uno dei brani più riusciti, se non addirittura
il più
riuscito dell'album. Rievocando la sventura del più tormentato tra i
protagonisti della
Beat Generation, il brano non rinuncia ad aprire
con brevissimo trillo giocoso di campanelli che ci introduce a un
rock lento piuttosto cupo. Il testo vero e proprio occupa meno di metà
dei 4:05 della canzone, da 0:07 a 1:49. Dopodiché una corrosiva
chitarra distorta e, a 2:10, una funeraria chitarra flamenca lanciano
splendidamente la coda con l'estenuato
ladeda del Moz, se
possibile ancora più dolente ed evocativo della prima parte della canzone, forse
uno dei passaggi più coinvolgenti del disco (e qui concordo con il
resto della critica).
Avendo
già trattato della traccia 3, saltiamo a Istanbul. Il
Moz ci aveva già portato in Medio Oriente con I Will See
You In Far Off Places. Qui
l'esperienza, anche musicalmente, è meno esotica (gli echi
arabeggianti appena accennati: del resto Istanbul è ancora Europa e
la Turchia non è un paese arabo), ma tutto sommato piacevole. Ancora una
volta il tono del cantato sembra meno drammatico del tema proposto
(un ragazzo-padre cerca il figlio, orfano di madre dalla nascita,
fino al tragico esito finale) ma di questa storica attitudine del
Moz, parlo più sotto. Istanbul è un brano abbastanza centrato, musicalmente a
metà strada tra Mexico
e il già citato I Will See You In Far Off Places.
Un recensore ha scelto
la traccia 5, Earth Is The Lonely Planet, come il peggior
brano dell'album. L'accusa è ancora una volta l'eccessiva presenza
di chitarre spagnoleggianti. Io non sono affatto d'accordo e, anzi,
concordo con chi l'ha scelto come singolo. Il brano, per quanto
tipicamente mozziano solo nel testo (del resto Gustavo Manzur, della
sua band, è un autore nuovo per il nostro) ha un suo fascino
immediato. Anche l'uso della voce, almeno nell'attacco iniziale,
unita all'anomalia della chiatarra, per la prima volta dopo tanti
anni ha ingannato anche un fedelissimo come me e al primo ascolto ho
riconosciuto il timbro di Morrissey solo dopo una dozzina di secondi.
In ogni caso nel viaggio di ritorno da Macerata è stato senz'altro
questo il brano più gettonato.
Staircase at the
University, traccia 6, ci racconta di una ragazza, spinta
all'over-performance scolastica dalla famiglia (in particolare, ancora una volta,
dai maschi della famiglia: padre e ragazzo) e che si suicida
all'università. Un brano che ricorda per certi versi When Last I
Spoke To Carol, (guarda caso anche là muore una ragazza), ma
stavolta, per assurdo, gli stilemi tex-mex, sono più presenti
nell'antecedente del 2009, mentre nel pezzo attuale abbiamo solo una
chitarra latina nella coda. Un altro brano musicalmente abbastanza
riuscito (anche se è il primo dell'album non incluso nella setlist
del concerto di Lisbona che ha aperto il tour Europeo), ma che forse
si poteva risolvere in minor tempo dei 5:27 totali. Lo stesso When
Last I Spoke To Carol, tutto sommato migliore, durava due minuti
di meno.
Ed ecco riapparire subito le note spagnoleggianti,
nel senso più tradizionale del termine con le trombe della corrida
che aprono The Bullfighter Dies. Che Morrissey sappia
conciliare una melodia allegra con il tema della morte lo sappiamo
dai tempi di Cemetry Gates e di Girlfriend In a Coma. Non
ci deve stupire che questo stilema appaia anche in quest'album, dove
muore qualcuno in almeno quattro, ma forse più, delle dodici canzoni. Qui il contrasto ha ancora
maggior senso visto che, se muore il torero, si salva il toro che,
per un animalista estremo come il Moz, equivale a un lieto finale.
Senza arrivare ai livelli di Johnny Marr anche qui, come in
Girlfriend In a Coma, si percepisce il pizzicato giocoso della
chitarra, ma tra i brani passati di Morrissey, il riferimento
musicale più prossimo è l'ottima I
Can Have Both (e forse
un po' anche You're the
One For Me, Fatty).
Fin
qui l'unico brano oggettivamente un po' noioso è stato I'm
Not A Man, da questo
punto in poi la gradevolezza dell'album scende inesorabilmente.
L'ultima a convincere in parte è forse proprio Kiss
Me A Lot, anche se
personalmente ho sempre avuto una idiosincrasia verso le canzoni che
ripetono continuamente il titolo nel ritornello come (Some Girls Are Better Than Others). Non male invece le
trombe, ancora latine, mariachi, che accompagnano lo stesso ritornello
regalandogli un po' di profondità emotiva, altrimenti assente. Il
titolo, peraltro, è la traduzione letterale della più famosa
canzone messicana, Besame Mucho, scritto nel 1940 da Consuelo
Velázquez e coverizzato da un intero pianeta, a partire dai Beatles.
Anche qui nel finale della strofa si sentono echi da When
Last I Spoke To Carol.
Pollice
verso plebiscitario della critica italiana per Smiler
With Knife, che dura
la bellezza di 5:17. In effetti la musica non è niente di che. I fan
invece ci inducono a soffermarci sull'ottima qualità del testo,
assolutamente criptico e, anzi, forse volutamente fuorviante a
partire dall'indeterminata attinenza con il romanzo che ne origina il
titolo The Smiler with the Knife di Nicholas Blake. Molti
sottilineano che si tratta forse del primo testo di Morrissey, dove
oltre a qualche rima è presente anche una certa attenzione al metro
(prevalenza di settenari). Per tematica può ricondursi a Jack
The Ripper (che però sembra essere di molto superiore). Certo
che finché non abbiamo capito esattamente di cosa parla (una
cospirazione, un incontro sessuale, un delitto - e qualora: metaforico
o reale? - oppure le tre cose assieme?) facciamo fatica a farci
un'opinione. Ma vedo che la stessa difficoltà viene incontrata persino dai madrelingua e in parte mi consolo.
Un altro
titolo incredibile, che si inserisce nella già ricca produzione di
titoli inauditi di Morrissey, è Kick the Bride Down the Aisle che, a
partire da un'ironica posizione maschilista e misogina, esorta gli
uomini a non sposare un certo tipo di donna (o qualsiasi donna?) per
evitarne le vessazioni matrimoniali. Il brano, come molti suoi
confratelli non si fa mancare interventi di chitarra e tromba
spagnoleggiante e poi, a 3:52, sembra rifarsi in maniera preoccupante
alla coda di Please, Please, Please Let Me Get What I Want.
Un
altro tema già percorso dai testi di Morrissey sono le carceri
(Strangeways, Here We
Are). Mountjoy
è il carcere di Dublino. Per ora questo brano non mi ha molto
impressionato né per testo, né per musica, anche se qualcuno ne ha sottolineato la rilevanza politica (relativamente all'indipendentismo irlandese). Ricorda, in peggio per
quanto riguarda gli arrangiamenti, le due canzoni lunghe di Southpaw
Grammar. Vedremo agli
ascolti successivi. Ma non promette bene.
Oboe
Concerto è un pezzo
inutile. Peccato chiudere un album che alla fin dei conti non è così
male, con una robetta così. La sola cosa rimarchevole è che
Morrissey pronuncia “concerto”, correttamente, quasi come un
italiano. E ci mancherebbe pure con tutto il tempo che è stato
qui.
Alla fine di questo percorso, dopo 24 ore
vissute con questo album, (ma alcune canzoni le conoscevo già) devo dire che per me la
verità sta nel mezzo: né capolavoro, né obbrobrio, anche se, tra
un anno, non so quante canzoni tratte da questo disco saranno incluse
nelle 10, 20 o 30 canzoni di Morrissey che salverei da un diluvio
universale. Probabilmente non molte.
Qui di seguito alcune recensioni "vere". Mi limito a una selezione di quelle italiane, cercando di ordinarle (a occhio) dalle più positive alle più negative:
Panorama,
ilsussidiario.net,
Ondarock.it,
sentireascoltare.com,
lospettacolo.it,
distorsioni.net,
outsidermusica.com,
rockol.it,
deerwaves.com,
indiesforbunnies.com,
ilfattoquotidiano.it