1) La povera Rosetta
Qualche giorno fa,
lavorando (parola grossa) al progetto Una canzone al giorno mi sono
imbattuto nuovamente ne La povera Rosetta, una canzone della ligera
(la malavita milanese di un tempo) ispirata dalla storia vera di una
giovane prostituta (Elvira Andrezzi, ma i giornalisti la chiameranno quasi sempre Andressi) morta a Milano nel 1913 in circostanze poco chiare e
pianta al funerale da parenti, amici e "non poca gente del quartiere ove abita la famiglia" (dal Corriere della Sera di sabato 30 agosto 1913).
Conoscevo la canzone: me
l'aveva insegnata alla fine degli anni '80 l'amico Stefano A., il quale
la canta partendo sempre con: "Il ventisei d'agosto / in una
notte scura / hanno trovato un corpo / la squadra di questura",
seguendo la versione resa celebre da Milly. Ma altri amici che mi stavano aiutando a completare l'associazione tra canzoni
e giorni del calendario, adesso mi segnalavano che la canzone, in
un'altra versione dei Gufi e poi di Nanni Svampa solista, inizia
effettivamente con le strofe "Il tredici d'agosto / in una notte
scura / commisero un delitto / gli agenti di questura". Il tredici d'agosto, non il ventisei.
Considerato che per il
mio gioco era fondamentale stabilire quale fosse il giorno preciso effettivamente menzionato dalla canzone
ho iniziato a cercare qualche notizia in più e ne è uscita una
storia molto interessante. Non voglio rovinare la sorpresa, ma dico
subito che la data corretta dei fatti narrati è una terza: il
27 agosto 1913. La prima versione, quella di Milly che recita "il ventisei d'agosto", è quella che ci va più vicino, almeno per quanto riguarda la data, ma ad essere precisi il triste episodio si svolse verso le 2 della notte tra il 26 e il 27 agosto, e
Rosetta poi morirà alle 11:30 della mattina successiva, siamo quindi in pieno giorno 27, ma alla fin fine la data è forse l'aspetto più marginale
di tutta la storia, che ha una serie di risvolti davvero interessanti.
Abbiamo cercato di
ricostruire tutta la vicenda, scoprendo che ci si era
cimentato persino Leonardo Sciascia nei primi anni '80, (Storie della povera Rosetta, Sciardelli, 1983) svolgendo un'opera fondamentale che teneva pure conto della doppia versione della canzone (ne parleremo più in dettaglio). Peccato invece che in rete si trovino ancora moltissime inesattezze,
molte delle quali derivanti da un frettoloso articolo del Corriere della Sera del 1980 nel quale veniva addirittura spostata avanti di un anno
l'epoca dei fatti (collocandoli nell'anno 1914).
Grazie anche a ricerche presso l'anagrafe del Comune di Milano e alla
disponibilità online dell'archivio del Corriere della Sera e dell'archivio storico de La Stampa e all'Istituto Salvemini di Torino che conserva gli articoli
dell'Avanti!, siamo ora in grado di ripercorrere tutta la vicenda di
Rosetta. Avverto subito che questo articolo è estremamente lungo, il
più lungo nella storia di questo blog, tanto che ho dovuto dividerlo
in capitoletti: non è la prima volta, ma i capitoletti non sono mai
stati così lunghi! L'obiettivo non è tanto raccontare bene la
storia (ci proveremo lo stesso) quanto raccogliere qui tutto il
materiale disponibile sull'argomento. Per rendere più chiara la
differenza tra le citazioni e i miei
raccordi ho utilizzato per le prime un fondino (beige per quelle dell'epoca di Rosetta, grigioverde per quelle più recenti, a partire dagli anni Ottanta).
2) La canzone
Ma partiamo proprio dal
testo della canzone nella sua doppia versione.
(Versione 1: qui nell'esecuzione di Milly)
Il ventisei d'agosto / in
una notte scura / hanno trovato un corpo / la squadra di questura //
Hanno trovato un morto /
con tre pugnal nel petto / e quel corpo l'era / quello della Rosetta
//
Hanno ucciso un angelo /
di nome la Rosetta / Era di piazza Vetra / battea la Colonnetta //
Vicino c'è il questore /
con quella faccia nera / con tutti gli agenti / ma l'assassin non
c'era //
Chi ha ucciso la Rosetta
/ non è della ligera / forse viene da Napoli / è della mano nera //
Si sente pianger forte /
in questa brutta sera / piange la piazza Vetra / e piange la ligera
//
Dormi Rosetta dormi / giù
nella fredda terra / a chi t'ha pugnalato / noi gli farem la guerra.(Versione 2: qui nell'esecuzione di Nanni Svampa, e qui in quella dei Gufi)
Il tredici di agosto / in
una notte scura / commisero un delitto / gli agenti di questura //
Hanno ammazzato un angelo
/ di nome la Rosetta / era di piazza Vetra / battea la Colonnetta //
Chi ha ucciso la Rosetta
/ non è della ligera / forse viene da Napoli / è della mano nera //
Rosetta mia Rosetta / dal
mondo sei sparita / lasciando in gran dolore / tutta la malavita //
Tutta la malavita / era
vestita in nero / per 'compagnar Rosetta / Rosetta al cimitero //
Le sue compagne tutte /
eran vestite in bianco / per 'compagnar Rosetta / Rosetta al
camposanto //
Si sente pianger forte /
in questa brutta sera / piange la piazza Vetra / e piange la ligera
//
Oh guardia calabrese /
per te sarà finita / perché te l'ha giurata / tutta la malavita //
Dormi Rosetta dormi / giù
nella fredda terra / a chi t'ha pugnalato / noi gli farem la guerra
//
(a chi t'ha pugnalato /
noi gli farem la guerra).
La prima versione è
certamente più breve: sette strofe contro le nove della seconda
versione (nove e mezza se contiamo pure la ripetizione della mezza
strofa finale - anche se nell'esecuzione dei Gufi scendono a otto e
mezza perché viene saltata la settima strofa), ma come è evidente
le due versioni si sovrappongono per larghi tratti: sono innanzitutto
uguali la strofa d'apertura (a parte la data) e quella di chiusura e, più avanti, la seconda strofa della versione 1 equivale alla terza della
versione 2 mentre la quinta della versione 1 corrisponde alla terza della versione 2.
Sono però interessanti
anche le differenze: Nella prima versione sono presenti "tre
pugnal" (facile immaginare che si tratti di tre pugnalate e non
di tre pugnali) e l'esplicita menzione del questore ("con quella
faccia nera") e gli agenti. Ma, attenzione: nella prima versione
(quella di Milly) la trama sembra ripercorrere la vicenda del ritrovamento di un
corpo da parte della squadra di questura, con l'incapacità dei
questurini di ritrovare l'assassino che "non c'era". Nella
seconda versione invece è presente un'accusa molto più diretta nei
confronti degli "agenti di questura" che "commisero un
delitto". Anche qui ci sono riferimenti alla "Mano Nera"
e a "Napoli", ma soltanto in questa seconda versione ne
troviamo anche uno alla "guardia calabrese" (un elemento che potrebbe avere qualche riscontro nella realtà dei fatti). Probabilmente
chi ha scritto la canzone tendeva ad associare la provenienza dalle regioni del Sud di molti degli agenti della Questura con la criminalità organizzata di origine meridionale, e che presto avrebbe quasi del tutto soppiantato (pur
con un lungo periodo di sovrapposizione-collaborazione) la malavita
locale.
Ma in ogni caso segniamoci questa figura della guardia calabrese, perché nella nostra storia sarà fondamentale. Vi dico subito il suo nome: Mario Musti. Se Rosetta è indubbiamente la protagonista principale della vicenda, Mario Musti e Attilio Orlandi, detto il Buterin o Butterin (letteralmente "piccolo burro" ovvero persona non particolarmente aitante), piccolo boss della Ligera, saranno i due principali protagonisti maschili di questa vicenda. Fissiamoceli nella mente: Mario Musti, la guardia calabrese (soprannominata però “el milanes”, il milanese!) e Attilio Orlandi, il ladro milanese (“el Buterin”).
Volendo potremmo aggiungere un terzo protagonista maschile: il reporter dell'Avanti!, che sarà il primo a indagare su questa vicenda, già a partire dalla stesura del secondo articolo (nel primo si era fidato della versione della Questura). Il quotidiano socialista in quei giorni è diretto da Benito Mussolini, allora ancora socialista. E c'è chi pensa (non abbiamo alcuna prova in merito) che sia stato lo stesso futuro dittatore a condurre l'indagine giornalistica e a stendere gli articoli di denuncia. Chiunque sia stato, ha fatto un gran lavoro. E in ogni caso Mussolini, in quanto direttore, ha avallato l'operato e dato il giusto risalto alla vicenda.
3) Le fonti
Chi fosse interessato
alla vicenda in tutti i suoi dettagli farebbe bene a tralasciare gran
parte del copioso materiale che si trova in rete e a concentrarsi
soprattutto sulle fonti attendibili.
Il primo ad averlo fatto compiutamente è stato certamente il già citato Leonardo Sciascia, (in appendice ho pubblicato l'elenco implicito delle fonti del suo saggio del 1983). Rispetto al suo lavoro gli elementi di maggiore novità del mio post sono fondamentalmente tre:
a) le informazioni contenute in alcune decine di articoli del Corriere della Sera pubblicati in date lontane (sia precedenti che successive) rispetto quelle del tragico epilogo dell'agosto 1913 e che evidentemente lo scrittore siciliano non aveva visto. Questi articoli del Corriere della Sera ci aiutano a ricostruire meglio la vicenda della famiglia Andrezzi, ed in particolare della stessa Elvira (la Rosetta), del padre e dei fratelli. Perché Sciascia e nessun altro aveva mai pensato di rintracciare questi articoli? Perché solo da poco tempo è possibile consultare online l'archivio del Corriere della Sera facendo ricerche mirate con parole chiave (es. "Andressi" o "Andrezzi") ottenendo in pochi secondi articoli la cui ricerca, ai tempi di Sciascia, avrebbe comportato settimane o mesi;
b) inoltre in questo post ho riprodotto integralmente il contenuto sia di questi articoli ignoti a Sciascia, sia di quelli (sempre del Corriere della Sera, oppure de La Stampa e dell'Avanti!) che in Sciascia, 1983, fungono da fonte, ma troviamo solo riassunti o citati; per far questo mi sono appoggiato anche all'archivio storico de La Stampa che è consultabile online come quello del Corriere della Sera, anzi: da ancora più tempo e oltretutto gratuitamente, laddove per consultare quello del Corriere della Sera è richiesto un abbonamento. Purtroppo, essendo un quotidiano con sede a Torino, La Stampa si occupa di Elvira Andrezzi soltanto nei giorni successivi alla sua morte. Dei cinque articoli de l'Avanti! pubblicati in questo post la fonte è l'Istituto Salvemini che ringrazio;
c) l'altra novità del post sono le immagini di quattro certificati rilasciati dal Comune di Milano (che confermano i principali dati anagrafici di Elvira Andrezzi pubblicati da Sciascia) e che si trovano nell'appendice di questo post. Leggendo il suo saggio, possiamo essere certi che Sciascia aveva sicuramente già visionato i certificati del Comune.
Per tutto il resto (altre informazioni anagrafiche, registri scolastici, parrocchiale, dell'ospedale), articoli de La Lombardia, l'Italia, il Secolo, La Gazzetta degli spettacoli e il libro di Marco Ramperti, ci siamo basati su quanto riportato da Sciascia, 1983.
L'elenco completo delle fonti è pubblicato in fondo a questo post, in appendice.
4) Rosetta, chi era?
Partiamo dal nome e dall'età di Rosetta: il Corriere della Sera utilizzerà quasi sempre il cognome "Andressi" sia per il padre (a partire dal 1886!), sia per Elvira e i suoi fratelli. Il 27 agosto 1913 si aggiungono due nuove storpiature: L'Avanti! la chiama "Andretti", mentre La Stampa ci propone addirittura una "Evelina Andreotti". In seguito entrambi gli organi di stampa si uniformano al Corriere della Sera, fermando la girandola su un comunque erroneo Andressi. Per quanto riguarda l'età invece i giornali concordano da subito (seguendo probabilmente la nota della Questura): la poveretta aveva diciannove anni. Questo è un altro piccolo errore.
Oggi noi sappiamo che il vero nome della povera Rosetta era invece Elvira Andrezzi e la sua età, al momento della morte, era di 17 anni e 360 giorni (ovvero mancavano cinque giorni al compimento del diciottesimo anno).
Il suo atto di nascita, stilato alle 3 del pomeriggio del 5 settembre 1895 (e riportato integralmente e in immagine qui sotto, in appendice) certifica che suo padre Eugenio, di anni 38, facchino, domiciliato in Milano, dichiarò la nascita di un "bambino di sesso femminino" avvenuta alla una di notte del primo settembre, nella casa posta in via Arena al numero 33, da Rainoldi Genueffa, casalinga, sua moglie, "seco lui convivente".
Una lieve discrepanza: diciottenne per l'Ospedale, diciassettenne per il Comune (in effetti mancavano solo cinque giorni al compimento del diciottesimo anno di età: tendiamo ovviamente a dare più credibilità all'atto del Comune).
Qualche dubbio in più deriva dal certificato di morte del padre Eugenio "di anni 65" che sarebbe avvenuta il 16 gennaio 1916. I 65 anni non coincidono con i 38 che aveva al momento della nascita di Elvira e nemmeno con l'articolo del Corriere della Sera del 1886 che lo descrive come ventisettenne. Molto probabilmente si tratta di un errore di trascrizione (il padre dovrebbe essere morto a soli 55 anni, pochi mesi prima di Elvira). Oppure, meno probabilmente, l'Andrezzi Eugenio, morto il 16 gennaio 1916 non è il padre di Elvira. Indagheremo, ma non è un dato centrale nella nostra storia: sappiamo comunque che nell'agosto 1913 Elvira era già orfana di padre perché nell'atto di morte di lei si parla di "fu Eugenio".
Apprendiamo altre cose da Sciascia: Elvira era l'ultima di nove figli, viene battezzata il 17 settembre 1895 nella Basilica di S. Eustorgio e le vengono imposti i nomi di Elvira, Rosa, Ottorina. Agli atti della Parrocchia il nome della madre risulta Giuseppa. Nel 1911 frequenta per alcuni mesi la scuola elementare di via Ariberto (nel registro della prima classe nel mese di febbraio è scritto: «assentatasi per malattia»). Risiede sempre nei quartieri di Porta Ticinese e Porta Genova: via Arena, Bastioni Genova, c.so Ticinese, piazza Macello, via Vetraschi. Solo nel 1912 abita per qualche tempo in via Espinasse al 2, ospite di Orlandi Attilio, detto «Buterin» ["piccolo burro" in milanese n.d.r.]. L’anno successivo comunque torna a vivere nel vecchio quartiere, al numero 7 di via Gaudenzio Ferrari. Il 21 marzo 1913, col nome di «Rosetta de Voltery», debutta come cantante al Teatro San Martino.
L'atto stilato alle 8 di mattina del 30 agosto (per l'immagine e la trascrizione integrale si veda qui sotto in appendice) riporta che il giorno 28 il Comune ha ricevuto dall'Ospedale Maggiore l'avviso che "a ore antimeridiane undici e minuti trenta del giorno ventisette Agosto corrente nel suddetto ospedale è morta Andrezzi Elvira di anni diciassette, cantante", residente e nata a Milano "da fu Eugenio e da Rainoldi Genoeffa, Nubile". Qui il nome della madre, che sull'atto di nascita sembra scritto come Genueffa, risulta più verosimilmente Genoeffa (mentre, come abbiamo visto, nella registrazione di battesimo di Elvira è Giuseppa).
Sciascia ci riporta che "nel registro conservato nell'archivio dell’ospedale si legge: « Elvira Andressi d’anni 18 di professione cantante domiciliata e nata a Milano, via Gaudenzio Ferrari, 7; fu accolta il 27 agosto 1913 – ore 2 – in sala T.S. [sciolto in nota: Tentati suicidi] per avvelenamento T.S. Deceduta il 27 agosto 1913 – ore 11,30 – per avvelenamento con sublimato corrosivo »".
Rosetta muore a 17 anni e 360 giorni, ma - pur essendo così giovane - nel corso degli ultimi tredici mesi - era già assurta agli onori della cronaca diverse altre volte, in relazione a quattro diversi episodi, molto diversi l'uno dall'altro.
La sua prima apparizione sulle pagine del Corriere della Sera (questa è una nostra piccola scoperta) risale al 27 luglio 1912. Rosetta (qui chiamata Rosina), che non ha ancora compiuto diciassette anni, si rende protagonista di un accesissimo scontro con una collega "nottambula", non privo di accenni grotteschi e che si conclude con una lieve sanzione economica nei suoi confronti, inflittale dal pretore.
4 a) Corriere della Sera, sabato 27 luglio 1912 - pag. 4
PRETURA URBANA DI MILANO
L'ombrellino della contessa
Scena prima. — Alla « Fiaschetteria Toscana », elegante ritrovo del centro, verso le due di notte. Nelle sale del ristorante ferve il lavoro. Attorno alle tavole imbandite sono nottambuli per vocazione e nottambule per profusione. L'allegria, il cicaleccio raggiungono il diapason. Una delle etére — Lina Cerfoglio, detta « la contessa » forse per taluni conti che ha dovuto regolare con la giustizia — passa davanti al tavolo dove siede, col damo, una compagna — Elvira Andrezzi, in arte « Rosina » — e... noblesse oblige, le rutta in faccia.
Allo scherzo plebeo della contessa, la Rosina, che è molto più giovane, protesta energicamente, e con lei il damo, per cavalleria. La scena si fa tragica. Le due ninfe si accapigliano mentre alcuni getti di seltz tentano inutilmente di smorzarne le ire, finché il direttore dell'esercizio non interviene ed allontana le due perturbatrici.
Scena seconda. — Al « Campari », altro ritrovo come sopra. Le due signorine, signorine malgrado tutto e malgrado la contessa abbia anche marito, si ritrovano. Altra zuffa con intervento del marito in parola e dell'ombrellino della contessa che si divide in due sulle spalle di Rosina. E Rosina, afferrato il manico dell'arma inservibile, lo restituisce sulla faccia della contessa, che corre alla Guardia Medica grondante sangue. Il certificato medico chiama « contessa » la donna ferita, ma non precisa il colore del sangue.
Scena terza. — In pretura, dove la contessa ha citato Rosina, imputata di lesioni cagionate con un temperino.
Rosina, la quale non ha che diciassette anni, protesta che fu provocata prima, aggredita poi dalla contessa: e soggiunge che il temperino era il manico dell'ombrello. La contessa non è venuta al processo. Ieri era venerdì, giorno forse di ricevimento: il venerdì della contessa...
Ma si fece benissimo senza di lei. Perchè ci furono i testimoni: le testimoni, anzi, che spiegarono come andarono i due incidenti a seconda delle loro simpatie verso l'una o l'altra parte. Una di esse, Regina Bertoli, richiesta, come vuole la legge, della propria professione, rispose sorridente:
— Prima facevo la modista.
Regina Bertoli ha diciott'anni. Faceva la modista quand'era in fasce!
Il pretore condanna Rosina a 25 lire di ammenda col beneficio del perdono e della non iscrizione.
Vicepretore: avv. Pisani; P. M. avv. Serembo; difesa avv. Rossi-Crivelli.
Molto curioso è anche il secondo episodio di cronaca che vede citata Rosetta e che risale all'ottobre del 1912, poche settimane dopo la zuffa con la contessa. Si tratta di uno scontro con tanto di pistola (che però non spara) tra suo fratello Edmondo Andressi e un tale Angelo Bocchiola che si era messo a proteggere Elvira e le sue sorelle maggiori. Di questo episodio, che andrà a sentenza l'anno successivo, si veda il dettaglio in un articolo del Corriere della Sera del 7 maggio 1913, riprodotto qui sotto, al capitolo 9.3 f).
Il terzo episodio che vede protagonista Rosetta è ben più grave, si tratta di un fatto criminoso che farà molto scalpore: il furto alla gioielleria Archenti avvenuto il 27 ottobre 1912. Anticipiamo un attimo i tempi e riproduciamo di seguito un articolo sul Corriere della Sera uscito il 4 giugno 1913 in cui si dà conto della conclusione delle indagini e del rinvio a giudizio di otto imputati: Rosetta sarà accusata di favoreggiamento. Qui compaiono Attilio Orlandi, el Buterin, all'epoca del furto amante di Rosetta e l'agente scelto Mario Musti, che comparirà sulla scena anche la sera della morte di Rosetta e il cui ruolo resterà sempre molto oscuro
4 b) Corriere della Sera, mercoledì 4 giugno 1913 - pag. 5
Il furto alla gioielleria Archenti
Ladri e ricettatori rinviati a giudizio
E' tuttora viva l'impressione per l'audace furto compiuto nella notte del 27 dello scorso ottobre nella gioielleria Archenti, sotto i Portici Settentrionali, al n. 19, in piazza del Duomo.
I ladri avevano approfittato di alcuni lavori che il Municipio faceva eseguire nello stesso palazzo, per giungere più facilmente al soffitto del negozio di gioielleria. Praticato in esso un largo foro si erano calati nell'interno del negozio svaligiandolo quasi completamente, e arrecando un danno al proprietario di oltre 20.000 lire.
Della ricerca degli autori dell'audacissima impresa ladresca si occupò in modo speciale il commissario cav. De Cesare, della Sezione di P. S. di via Panizza, il quale esperì lunghe e laboriose indagini. L'autorità giudiziaria, dopo averle vagliate e completate, su conclusioni del P. M. avv. Turrini ha rinviato al giudizio del Tribunale otto individui, fra i quali due donne, e precisamente: Attilio Orlandi, detto Butterin, di Luigi, d'anni 21; Emilio Gambini, detto Milieu, fu Angelo, d'anni 33; Amedeo Dapò, d'anni 29, di Lodovico; Italo Orlandi, di Luigi, detto Tartaglia; Elvira Andrezzi, fu Eugenio, amante dell'Attilio Orlandi; Remo Colombo, fu Cesare, detto Pinin Camola; Romeo Pellegatti, detto Bac, e Fulvia Ziletti, amante del Gambini.
Schizzo rivelatore
I primi tre sono stati ritenuti autori materiali del grosso furto. I primi sospetti caddero sul Dapò; appena arrestato egli protestò la sua innocenza e stava per essere rilasciato in libertà allorchè contro di lui vennero raccolti vari elementi di colpa.
Dopo qualche tempo dal furto all'Archenti, un'altra impresa ladresca importante veniva compiuta nella villa del signor Caprotti, in via Mario Pagano. Il commissario De Cesare, aveva ritenuto di colpire giusta traendo in arresto Attilio Orlandi, il quale malgrado abbia poco più di vent'anni, ha già subito una diecina di condanne. Con grande sorpresa del funzionario, fra le carte rinvenute indosso all'arrestato fu trovato uno schizzo grafico che non tardò ad essere riconosciuto corrispondente alla topografia dei locali della gioielleria. Si ebbe in tal modo la prova che l'Orlandi non era stato estraneo a tale furto. Egli tentò di far credere che si trattasse di uno schizzo riguardante un villino di un suo fratello, poi mutò versione, e cercò altre scuse. Ma un perito dimostrò false le sue giustificazioni. Il commissario si pose alla ricerca dei complici e ricorse ad un espediente abbastanza usato nella polizia, di mettere cioè nella stessa camera di sicurezza una guardia camuffata da ladro allo scopo di spillare rivelazioni.
Tale incarico fu affidato all'agente scelto Mario Musti, detto el milanes, ed egli seppe recitare cosi bene la commedia, da indurre l'Orlandi ad una esplicita confessione. Secondo questa, egli avrebbe, colle indicazioni dello schizzo fornitogli dal Dapò, compiuto il furto, mentre il Dapò ed il Gambini vigilavano all'esterno della gioielleria.
Alla caccia dei complici I gioielli rubati erano stati portati prima a casa della madre dell'Orlandi, poi in una casa in costruzione in via Brusimpiano, ed infine in via Espinasse N 2, a Musocco, dove l'Attillo conviveva con Elvira Andrezzi.
Forte di tali rivelazioni, la polizia sapendo che al momento opportuno l'Orlandi avrebbe negato ogni cosa, rivolse l'opera sua a stabilire la verità della narrazione fatta ed a raccogliere le prove contro le persone da lui indicate. Poté in tal modo essere stabilito che l'Orlandi Attilio, subito dopo il furto, aveva pagato numerose cambiali: che il Gambini aveva acquistato, facendo figurare la sua amante Fulvia Ziletti, un negozio di erbivendolo per il quale aveva sborsato circa 1500 lire; che il Dapò aveva ricevuto in compenso, appena trecento lire, e che i gioielli tenuti prima della vendita da Italo Orlandi, fratello dell'Attilio, erano stati venduti nel caffè Boselli, di porta Ticinese.
Gli acquirenti sarebbero stati in parte il mediatore in gioielli Remo Colombo, detto Pinin Camola, il quale ammise di averne avuta l'offerta, ma di averla declinata, non trovando la richiesta del prezzo conveniente. Egli indicò invece come compratore Romeo Pellegatti detto Bac, che protestò vivamente contro il Colombo. Questi all'autorità giudiziaria smentì di avere indicato il Bac, ma alcuni testimoni lo avrebbero a loro volta smentito, perciò pur egli è stato denunciato.
L'autorità giudiziaria, oltre alle prove che stanno contro i ritenuti autori del furto, si è convinta che le altre cinque persone fossero a conoscenza della provenienza furtiva dei gioielli e perciò, mentre l'Orlandi Attilio, il Gambini ed il Dapò sono rinviati a giudizio per furto, il Colombo ed il Pellegatti sono imputati di ricettazione. mentre Italo Orlandi, Elvira Andrezzi e Fulvia Ziletti dovranno rispondere di favoreggiamento.
La madre dei fratelli Orlandi, Giulia Biolchi, che era stata denunciata per complicità coi due figli, fu dichiarata assolta.
Dopo la zuffa con la collega (27 luglio 1912), lo scontro tra il fratello Edmondo e Angelo Bocchiola (ottobre 1912), la (probabile) complicità con l'amante Buterin nel furto del 27 ottobre alla gioielleria Archenti, la quarta apparizione sulla stampa di Rosetta ha ragioni ben più liete: ed è il suo debutto al Teatro San Martino di piazza Beccaria come canzonettista. Sciascia lo data 21 marzo 1913 e ci riporta la recensione della Gazzetta degli spettacoli del 15 aprile successivo.
Gazzetta degli Spettacoli del 15 aprile 1913:
L'attesa era vivissima ed il pubblico non fu deluso nella sua aspettativa. Specialmente quando uscì in veste di birichina milanese, si fece un certo silenzio per ascoltare questa nuova produzione scritta in dialetto e musicata dal Maestro Mignone appositamente per lei. Il titolo è Scarliga [lett. Scivola], uno di quei detti volgari locali, e non manca di qualche frizzo che naturalmente deve stare sempre in carattere. In questa produzione si distinse benino e venne molto applaudita incontrando il favore del pubblico. Alla bella Rosetta, pardon: Rosette, i nostri migliori auguri per una brillante e facoltosa carriera. Ora è andata a Roma, dove al Salone Margherita ha rinnovato il successo di Milano.
Sia la location che molti dei frequentatori avrebbero avuto successo. Il teatro avrebbe ospitato anche serate futuriste con Marinetti, Boccioni e soci. E l'autore dei testi milanesi della performance di Rosetta, l'allora venticinquenne Marco Ramperti, avrebbe scritto qualche romanzo di successo e un repertorio di star del cinema: Sciascia ci narra di una sua foto con Jean Harlow. Ramperti scriverà un libro anche sulla Milano di quegli anni in cui racconta che Rosetta ai miliardari preferiva i teppisti, ma non aveva un "protettore" ufficiale.
Poche settimane più tardi, il 3 giugno, come abbiamo già visto, si concludono, con il rinvio a giudizio di Rosetta per favoreggiamento, le indagini sul furto alla gioielleria Archenti (risalente all'ottobre 1912). Con ogni probabilità questo fatto precipita nuovamente Rosetta nell'ambiente da cui proveniva e con cui forse, persino anche dopo il recente successo a teatro, non aveva ancora tagliato i ponti del tutto. Il 29 luglio Rosetta verrà scagionata "per non provata reità": ed è sull'onda di questa sequenza di avvenimenti che la diciassettenne milanese arriva alla sua ultima notte, fresca di assoluzione e con una carriera da canzonettista appena intrapresa.
5) La notte tra il 26 e il 27 agosto 1913
Cosa accadde nella notte tra il 26 e il 27 agosto? Di seguito un breve riassunto (per chi è di fretta e vorrà chiuderla qui, ma anche per chi preferirà continuare la lettura).
Per farla estremamente breve sulla drammatica sequenza di quella notte esistono due
versioni principali:
- Il primo racconto si basa sul rapporto della
Questura: in piena notte al Carrobbio due agenti di Pubblica Sicurezza cercano di arginare gli schiamazzi di un gruppo di
prostitute e relativi sodali. Ne nasce una colluttazione, alla quali
si aggiungono altri due agenti e una pattuglia della squadra mobile.
Alla fine del parapiglia le forze dell'ordine riescono a fermare sei
uomini e una donna. Ma al momento dell'arresto, mentre sta per essere portata al comando, Rosetta si uccide
ingoiando qualche pastiglia di sublimato corrosivo e, per quanto ne
sputi due, quelle ingerite sono sufficienti a farla stare molto male.
Trasportata all'Ospedale Maggiore morirà la mattina successiva. Questa è anche la versione che viene ripresa da tutti i quotidiani in prima battuta;
- Ma già a partire giorno
successivo, il 28 agosto, la versione ufficiale della Questura viene
messa in dubbio dall'Avanti! che, scavando più a fondo, offre ai propri lettori un quadro completamente
diverso: Rosetta sarebbe morta per le percosse ricevute dalla polizia
in due fasi diverse. Non c'è gara: in questa vicenda chi fa il lavoro migliore è senza dubbio il cronista del quotidiano socialista, a quel tempo (da ottobre 1912 a ottobre 1914), diretto da Benito Mussolini. L'inchiesta, suffragata da
numerose testimonianze, viene immediatamente presa in considerazione anche dagli
altri giornali, che - correttamente - nel farlo citano lo stesso Avanti! anche se poi si riallineano presto, specialmente il Corriere della Sera, alle tesi della questura. L'inchiesta e la successiva campagna di stampa pro veritate porta persino all'apertura di un'indagine giudiziaria nei confronti degli agenti di P.S. che non si fermerà nemmeno quando l'autopsia
escluderà che i segni sul corpo della giovane possano essere
attribuibili a percosse di violenza tale da giustificarne la morte. L'indagine infatti prosegue (anche se per via dell'esito dell'autopsia il capo di accusa verrà derubricato a "Percosse") portando al mandato di comparizione per sette agenti (Corriere della Sera, 7 maggio
1914), al rinvio a giudizio per due di loro (Musti e Santovito -
chiamato in qualche caso Sanvito - Corriere della Sera, 2 agosto 1914)
e all'assoluzione finale per entrambi (Corriere della Sera, 27
febbraio 1915): il Musti per non aver preso parte al fatto ed il
Santovito per non provata reità. Tutto l'iter giudiziario sarà
svolto in un anno e mezzo.
Tra poco vedremo che lo
schema, verrebbe quasi da dire "il format" degli eventi,
seguì un copione abbastanza ricorrente nelle notti milanesi: due
guardie che si aggirano nei quartieri malfamati, fronteggiano e in
qualche caso cercano di arrestare qualcuno (talvolta per risse,
spesso anche solo per schiamazzi oppure per rumorosi capannelli
attorno alle prostitute), ma poi al momento del confronto tra agenti e "schiamazzanti" spuntano
dai vicoli molti abitanti della zona contigui alla piccola
malavita locale, che si oppongono ai tutori dell'ordine (e qui viene spesso evocato, anche nei resoconti giornalistici, il reato di "ribellione"). Gli agenti spesso resistono, talvolta vengono aiutati da altri colleghi, oppure fuggono e poi tornano in
forze procedendo a sbrigative indagini e ad arresti particolarmente
brutali. Vedremo che nella storia della famiglia di Rosetta, e più in generale del suo quartiere, episodi
di questo tipo erano molto frequenti all'epoca. Anche la prima comparsa sul Corriere
della Sera di un Andressi (si tratta al 99% di suo padre Eugenio)
avviene (nel 1886) in circostanze simili a quelle che poi porteranno
alla morte di Rosetta, ventisette anni dopo. Ma forse conviene
partire approfondendo ulteriormente le due versioni della morte di
Rosetta: quella che circola la prima sera, poco dopo la sua morte e
quella alternativa che l'Avanti! propone ai suoi lettori il giorno
successivo, quasi scusandosi di essere stato inizialmente troppo
pedissequo rispetto ai rapporti di Questura. (Qui va ringraziato il sito elio borgonovo Milan... in del coeur per l'opera di documentazione sugli articoli
dell'Avanti! dei giorni 27, 28, 29, che ho reperito successivamente in forma integrale presso l'Istituto Salvemini di Torino).
6) Cosa accadde? La prima
versione dei fatti nel racconto di Corriere della Sera, Avanti! e La Stampa
6 a) Corriere del Pomeriggio,
mercoledì 27 agosto - pag. 6
RECENTISSIME
Ultime di Cronaca
Grave ribellione alle
guardie
Una donna che si uccide
Questa notte, dopo le 2, al Carrobbio – località dove si dà convegno nelle ore notturne
gente della malavita – un gruppo di giovinastri e di donne del
marciapiede schiamazzava senza alcun ritegno. Due guardie in divisa
si avvicinarono agli schiamazzatori invitandoli ad abbassare il tono
dello sgradito concerto. Ma ebbero un'accoglienza ostilissima. I
giovanotti, pregiudicati della peggior specie che vivono nell'ozio e dei guadagni che fanno le loro degne amiche, protestarono con
vivacità e prepotenza. E ad essi se ne aggiunsero numerosi altri che
sbucarono dalle vie vicine come ad un segnale convenuto. In poco
tempo le due guardie si trovarono strette da ogni parte e minacciate.
Cercarono di aprirsi un varco, ma trovarono una resistenza violenta e
dovettero impegnarsi in una fiera colluttazione. La loro situazione
era assai brutta perché da soli non potevano sostenere l'urto di una
trentina di individui. La guardia Maddaleni, della sezione terza,
aveva avuto la giubba strappata ed era stata ripetutamente percossa.
Giunsero in quel mentre altre due guardie le quali diedero man forte
ai loro compagni. Vennero intimati parecchi arresti. Ma era un
problema condur via gli arrestati, perché gli altri si opponevano
tentando di liberarli. Fortunatamente sopraggiunsero, richiamate dal
chiasso della scenata, alcune guardie della squadra mobile. Allora i
rivoltosi si diedero alla fuga.
Prigionieri delle guardie
rimasero sei uomini ed una donna, la quale si era messa a strillare
come una indemoniata perché fra gli arrestati si trovava anche suo
fratello.
Quando vide che avrebbero
tratto in arresto anche lei, fu presa dalla disperazione: si cacciò
una mano in tasca traendone delle pastiglie di sublimato corrosivo
che, con una mossa fulminea, mise in bocca. Poscia si gettò a terra
e dovette, di peso, essere portata all'Ospedale. E' certa Elvira
Andressi, di anni 19, dimorante in via Vetraschi. I suoi amici furono
condotti a San Fedele.
L'Andressi arrestata è
assai nota alla malavita milanese: l'autorità aveva, per un momento,
sospettato che essa fosse quella donna zoppa vista colla Marzagaglia
la sera del delitto in cui questa lasciò la vita.
Il sospetto risultò poi
infondato. L'Andressi era stata arrestata anche in seguito al furto
compiuto in danno del gioielliere Archenti. Essa infatti era l'amante
di uno degli Orlandi arrestati e si credeva avesse partecipato al
furto. Nulla poi risultò a suo carico, sicché dovette essere
rimessa in libertà.
Benchè subito dopo
l'avvelenamento, l'Andressi abbia sputato due delle pastiglie, quelle
inghiottite furono sufficienti a metterla in gravissime condizioni.
La poveretta infatti a mezzogiorno è morta.
Qui ancora una volta,
nel nostro racconto, incontriamo Attilio Orlandi, detto "el
Buterin", che in milanese significa il piccolo burro. Più
avanti scopriremo altre cose di lui, così come (nel capitolo 10) ci occuperemo del furto ai danni del gioielliere Archenti. Per ora ci basti sapere che era
un piccolo capo della malavita milanese, amante di Rosetta la quale, come
ci racconta Leonardo Sciascia, per
qualche mese nel corso del 1912 si era trasferita nella casa di lui,
posta in un'altra zona di Milano, viale Espinasse, 2 (a circa 5
chilometri in linea d'aria da Piazza Vetra, nella zona Nord-Ovest e
molto più lontano dal centro rispetto a piazza Vetra che si trova a
Sud-Ovest, a meno di un chilometro dal Duomo). Poco dopo, però,
sempre stando alla ricostruzione di Sciascia, Rosetta era
tornata nel suo quartiere originario, nella nuova residenza di via
Gaudenzio Ferrari, 7. Per saperne di più su Attilio
Orlandi, el Buterin, si legga questo articolo su magzine.it.
Riguardo all'accenno alla "Marzagaglia", qui il Corriere della Sera fa un po' di confusione. Maria Mazzagalia (questo il nome corretto riportato dallo stesso Corriere del 17 agosto) era una prostituta di 36 anni uccisa nella propria abitazione di via Revere 6, esattamente dieci notti prima della morte della Rosetta ed era lei stessa ad essere zoppa, non l'amica con cui era stata vista in un locale poche ore prima del delitto. Strano che il Corriere equivochi su cognome e zoppia visto che sul caso Mazzagalia pubblicherà decine di articoli (proprio come per la morte della Rosetta). Il delitto Mazzagalia si inserisce in una catena di omicidi e ad aggressioni ai danni di prostitute avvenuti in quelle settimane ad opera, pare, di singoli individui, alcuni ipotizzano lo stesso individuo (a quanto ci risulta, dopo alcuni arresti, il vero colpevole non verrà mai identificato): il 15 giugno in Corso Buenos Ayres, 28 era stato trovato il cadavere "trafitto di coltellate" della ventiseienne Bruna De Gradi, analoga sorte era toccata alla Mazzagalia il 17 agosto e la sera successiva venne ferita, sempre a coltellate sul dorso, la ventitreenne Rosa Cipolla. Il Corriere del 21 agosto sotto il titolo "Misterioso aggressore di donne - Una donna ferita e derubata nella propria abitazione" attacca così: "Nell'ambiente equivoco delle donne di malavita il delitto di via Revere ha destato una impressione di terrore. Nella spaurita fantasia di queste donne la tragica fine della De Gradi e della Mazzagalia, non sono che gli episodi più gravi di una serie di altri fatti che in questi giorni si sono susseguiti con una frequenza impressionante, e nei quali domina la figura misteriosa di un individuo trentenne, delinquente o maniaco, che sceglierebbe le sue vittime di preferenza fra queste disgraziate". Non sarebbe il primo caso nella storia dei serial killer, quello di puntare alle prostitute, peraltro. E poi nello stesso articolo si dà conto di una quarta aggressione: questa volta ai danni della ventitreenne Maria Vergani, detta "la torinese", che se la cava con qualche graffio e il furto di 50 lire. Il caso della Rosetta, di pochi giorni successivo agli ultimi episodi, si distingue però da tutti gli altri perché tutta la vicenda si svolge all'aperto e in pubblico. Forse la Rosetta era tra le persone ascoltate dalla polizia dopo l'uccisione della Mazzagalia, anche se le due avevano storie, età e residenze piuttosto distanti. Mi sembra persino difficile che si conoscessero.
6 b) Avanti!, mercoledì 27 agosto 1913 - pag. 4
Canti notturni
e
donnine più… allegre del solito
Una ribellione in Largo
Carrobbio - Il tentato suicidio della “Rosetta” - Otto
arresti.
Questa notte il Largo
Carrobbio, in fondo a via Torino, si era tramutato in una specie di
caffè-concerto: alcune donnine più allegre del solito, ed alcuni
giovinastri, padroni del campo, cantavano a squarciagola, turbando, evidentemente, il sonno dei pacifici cittadini. Dall’inno a Tripoli col gen. Caneva e il bel suol d’amore, si era giunti alle
canzoni oscene ed ai richiami di malavita. Quando proprio il baccano
divenne infernale, quando proprio quelle roche voci avvinazzate erano
giunte ad un diapason inverosimile, una pattuglia di due agenti di
pubblica sicurezza intervenne. E fu accolta male, a dir vero, poichè, invece di finire, il coro delle voci aumentò: e più
che canti, questa volta, erano ingiurie e motteggi all'indirizzo
delle due guardie.
Fu allora che gli agenti
afferrarono per la giacca due dei più rumorosi, intimando loro di
seguirli in questura. Macchè! Lo strepito delle donnine più allegre
del solito non ebbe freno ed allora, come rispondendo ad un dolce
richiamo, sbucarono dalle via adiacenti sinistri figuri. Le due
guardie furono non poco malmenate; e l'agente Maddaloni oltre a
riportare, nella colluttazione, alcune lievi contusioni, si ebbe la
giubba rotta in brandelli.
Ecco però sopraggiungere, per una notevole combinazione, altre due guardie in divisa ed un pattuglione di agenti della squadra mobile. La lotta si fece accanita:
volarono pugni da le due parti con una frequenza vertiginosa!
Però i malviventi furono
scompigliati; i più si diedero alla fuga, restando in ostaggio al
nemico ben sette individui già noti agli uffici di questura.
Mentre il pattuglione
della squadra mobile aveva presa la via di San Fedele, per tradurre
in guardina gli arrestati, gli agenti in divisa, ai quali era toccato
il miglior bottino di guerra, montavano su una vetura [sic] con una delle
donnine più allegre del solito, la Rosetta, al secolo Elvira
Andretti, di anni 19, abitante in via Vetraschi. La ragazza comprese che,
questa volta, arrestata per oltraggio e per ribellione la cosa era appena incominciata… e pensò di farla finita: con mossa fulminea estrasse
dalla borsetta un tubetto di pastiglie di sublimato e ne ingoiò
alcune. Poi, dopo l’atto violento contro se stessa, la donna fu
presa da convulsioni.
La vettura dovè cambiare itinerario: invece che a San Fedele, dovè dirigersi
all’Ospedale Maggiore dove a la Rosetta – che si afferma essere l'amante di uno dei complici del famoso furto Archenti – vennero praticate tutte
le cure necessarie.
La disgraziata venne
trattenuta all’Ospedale Maggiore: ma è piantonata poichè trovasi
in stato di arresto.
6 c) La Stampa, giovedì 28 agosto –
pag. 4
Malviventi che si
ribellano alle guardie
Una donna arrestata si
avvelena
Milano, 27, sera.
Questa notte, a Corrobbio
[sic], alcuni giovanotti della malavita schiamazzavano senza alcun
ritegno. Due guardie li invitarono a seguirli, ma i giovinastri
protestarono con vivacità e prepotenza. Anzi, se ne aggiunsero degli altri, che sbucarono dalle vie vicine, tanto che le due guardie si
trovarono strette da ogni parte. Cercarono di aprirsi un varco, ma
trovarono una forte resistenza, e dovettero impegnarsi in una fiera
colluttazione. Una guardia aveva la giubba strappata, dopo essere
stata ripetutamente percossa. Giunsero finalmente altre guardie, che
prestarono man forte ai loro compagni. Vennero fatti varii arresti, fra i quali anche quello di una donna.
La donna, al momento del
suo arresto, cominciò a disperarsi, e si cacciò all'improvviso
delle pastiglie di sublimato in bocca. Fu subito trasportata
all'ospedale. La donna è certa Evelina Andreotti, d'anni 19. I
suoi amici furono condotti in Questura. La Andreotti è assai nota
nella malavita milanese. Quantunque abbia sputato due delle
pastiglie, quelle inghiottite furono sufficienti per metterla in
gravissimo stato. La poveretta infatti a mezzogiorno è morta.
7) Cosa accadde? La
seconda versione dei fatti
Dopo aver avvallato
questa prima versione, evidentemente basata sui rapporti della
Questura, i giornali iniziano ad avanzare qualche dubbio: come si
diceva è l'Avanti! il primo a farlo (siamo già al giorno
successivo):
7 a) Avanti!, giovedì 28 agosto 1913 –
pag. 4
Come e perché è morta
una giovane canzonettista
Può una pastiglia di
sublimato uccidere una donna in poche ore?
Narrammo ieri (secondo la
versione che all’ultima ora, quando non ci era più possibile di
controllare l’autenticità, venne dalla questura comunicata ai
giornali) la colluttazione avvenuta al Largo Carrobbio fra un gruppo
di giovanotti ed alcuni agenti di pubblica sicurezza. Dicemmo che la
ragazza Elvira Andressi di anni 19, tratta in arresto, non appena
montata in vettura per essere tradotta a S. Fedele, aveva tentato di
suicidarsi, ingoiando tre pastiglie di sublimato, due delle quali
però sputò subito.
Un tragico punto
interrogativo
All’Ospedale Maggiore,
dove le fu immediatamente praticata la lavatura gastrica, si riscontrò
che la Andressi aveva soltanto simulato il suicidio; ma poichè gli
agenti Musti e Leoni, che ve l’avevano accompagnata, insistevano
nel voler far credere che la disgraziata avesse ingoiate chi sa
quante pastiglie di sublimato, sul registro del posto di guardia
dell’Ospedale venne scritto:
«Ore 1,30 [probabile, parzialmente illeggibile, n.d.r.] – Elvira
Andressi di anni 19, abitante in via Gaudenzio Ferrari 7, a scopo
suicida ingoiava 3 pastiglie di sublimato corrosivo (?). Lei dice
perché arrestata. Accompagnata dalle guardie Musti e Leone.»
Il punto interrogativo
che c’era sul registro, stava a significare che delle tre pastiglie
di sublimato – due delle quali già dall'Andressi sputate –
nessuna traccia era stata rinvenuta in seguito alla lavatura
gastrica. Tale interpretazione trova esatto riscontro nelle
informazioni fornite ieri mattina dall’Ospedale Maggiore, ai
cronisti del Secolo, che riportando i particolari del suicidio
scriveva:
«Come la donna fu in
carrozza ingoiò alcune pastiglie di sublimato. Ma come fu arrivata
alla casa di salute si poté stabilire che la ragazza aveva simulato
il suicidio: infatti, aveva sì cercato di ingoiare alcune pastiglie
di sublimato, ma le aveva subito sputate, non appena sentitone il
sapore… velenoso.»
Sullo stesso registro,
più tardi, veniva scritto, lateralmente al brano riportato, questa
semplice frase: « Morta alle ore 11.30. »
Ecco che il punto interrogativo acquista un significato tragico: rimane lì non più a
testimoniare soltanto che la disgraziata Andressi, aveva simulato il
suicidio: ma, segnato lì per caso, esso sembra ingigantire e
chiedere la chiave del mistero della morte – dopo dieci ore di sofferenze, dopo
una agonia atrocissima – di una giovane donna.
La morte impreveduta di
Elvira Andressi ha mutato il tono delle informazioni che si danno in
questura, ed il posto di guardia dell’Ospedale. Ora si dice che le
pastiglie di sublimato sono state parecchie e si dipinge con i colori
più foschi la vittima. E si crede di gettare chi sa quale luce
infamante sulla sciagurata, dichiarando che ella era amica della
Mazzagalia, di colei che fu assassinata in via Revere senza che la polizia
potesse riuscire a scoprirne l’assassino. La Andressi era amica
della Mazzagalia? Ebbene noi non potremmo trarre da tale indicazione
che una amara considerazione: ella è caduta vittima di uno stesso
tragico destino.
La vittima
Elvira Andressi era una
povera ragazza del popolo, troppo presto vinta dalle tentazioni del
lusso e, forse, del vizio. Ma, tuttavia, giovanissima e molto bella,
ella volle tentare di sottrarsi al mondo equivoco nel quale era
caduta: non forse, per redimersi, ma certo per non precipitare, ogni
giorno di più, nella voragine dei bassifondi.
Molta grazia, molta
verve, una graziosa voce: le parvero le qualità necessarie per
migliorare la sua sorte e studiò per debuttare come canzonettista.
Col nome di Rosetta ella era conosciutissima: aveva cantato al San
Martino, raccogliendo molti ammiratori se non un grande successo. Poi
aveva ottenuto delle scritture per i teatri di varietà di altre
città d’Italia.
Così le era stato
possibile di prendere in fitto un quartierino di quattro stanze in
via Gaudenzio Ferrari sette (e non sei, come si era detto) dove
riceveva i suoi ammiratori.
La sua carriera di
canzonettista era a questo punto: lunedì scorso aveva terminato una
breve scrittura al San Martino, ma avrebbe dovuto far parte dello
spettacolo di tale ritrovo anche questa sera giovedì, e domani sera. Per il primo settembre era scritturata in un caffè-concerto di Genova.
Tutto questo la questura
lo sapeva: ella – a quanto ci è stato riferito – si era
provvista di una tessera per gli artisti che la questura rilascia per
le riduzioni ferroviarie. Poche sere or sono, mentre la Andressi si
recava in via S. Giovanni in Conca 2 – dove abita un suo fratello
per nome Luigi – la squadra del buon costume la fermò per
trascinarla in guardina: ma la Rosetta mostrò la tessera di
riconoscimento e potè così dimostrare che, ormai, la sua condizione
era, in certo modo, mutata. Fu lasciata libera di proseguire, poiché
ne aveva il diritto: ella tornava dal San Martino e si recava a casa
senza compiere alcuna opera di adescamento. Tuttavia gli agenti si
mostrarono delusi: la graziosa preda sfuggiva ora, come era sfuggita
quando avendola accusata di complicità con uno dei responsabili del
famoso furto in danno dal gioielliere Archenti, dovettero
rilasciarla, nulla essendo risultato a suo carico.
Il prologo
Narriamolo. Al largo
Carrobbio, martedì notte, verso il tocco, [la una di notte n.d.r.] la Andressi era ferma con
altre due donne e con quattro giovanotti. Forse cantavano – questa
affermazione della questura è smentita da parecchi abitanti di
piazza Carrobbio che, dalle finestre assistettero al fatto – certo
che la Andressi era diretta a casa di sua sorella maritata che abita
in via Vetraschi 22. Due agenti in divisa della III sezione di P.S.
si avvicinarono alle donne ed ai quattro uomini, intimando loro di
circolare. Ma il gruppo non si arrese all'invito. I due agenti, dopo aver parlamentato vivacemente, con gli
uomini, si allontanarono. Poco dopo, da via Torino, sopraggiunse un
pattuglione della squadra mobile composto di oltre venti agenti parte in divisa e parte in borghese: gli agenti della III Sezione si unirono al pattuglione, muovendo così all’assalto dei giovanotti, e delle
donne. Essi furono invitati nuovamente ad allontanarsi: ma ancora si
rifiutarono affermando che di nulla si erano resi responsabili.
Il rifiuto inasprì gli
agenti che, forti anche del numero si scagliarono velocemente sui
malcapitati: le guardie in divisa estrassero le daghe e distribuirono
piattonate all’impazzata. Le grida avevano richiamato delle persone
dalle varie strade adiacenti persone che restarono in distanza, come
semplici testimoni: e molta gente era, svegliatasi, accorsa alle
finestre.
E' così che ci risulta,
che quando le guardie in divisa estrassero le daghe, la prima
piattonata colpì al petto la Andressi con tanta violenza che la
disgraziata ebbe un grido di spasimo e cadde al suolo svenuta.
Ben presto, però, i
numerosissimi agenti tratti in arresto i quattro uomini si disposero
per accompagnarli a San Fedele.
Intanto, fra la gente che
era accorsa, vi era anche un fratello della Rosetta. Arturo Andressi,
facchino del Verziere il quale – a quanto ci è stato da tutti i suoi conoscenti assicurato – è incensurato. Egli
attendeva – era già il tocco – l’ora di recarsi al mercato.
L’Arturo è un povero
zoppo, debole e deforme. Quando si accorse che la sorella era caduta
semi svenuta, si rivolse a due altri giovanotti del quartiere,
anch’essi spettatori, pregandoli di aiutarlo a soccorrere la
Rosetta.
Infatti i due giovanotti
e l’Arturo si affrettarono a rialzare la disgraziata: e quando si
fu riavuta si incamminarono con lei verso piazza Vetra. Gli agenti,
con i quattro arrestati si erano già allontanati.
La vigliacca aggressione
Giunti che furono in
piazza Vetra i tre uomini e la Rosetta si fermarono: la donna era
ancora sotto l’impressione della scenata svoltasi poco prima e
tremante e dolorante per la piattonata ricevuta.
Prima di procedere per
via Vetraschi e recarsi in casa della sorella, ella si era soffermata
a parlare ancora con i due giovani e col fratello, appoggiandosi alla
ringhiera di ferro che divide l’antica piazzetta del mercato della
via Vetraschi, sottostante di circa due metri. Lo zoppo, rimproverava
alla sorella di non essersi subito allontanata alle intimidazioni dei
poliziotti.
Improvvisamente irruppero
otto o dieci agenti del pattuglione di poco prima, i quali separatasi
dagli altri agenti che accompagnavano gli arrestati, avevano seguita la
Rosetta e il fratello. E fu contro l’Arturo, questo sciagurato
zoppo, debole e deforme, che gli agenti si scagliarono, afferrandolo
brutalmente e percuotendolo. Così malmenato lo zoppo, che invano
gridava di non essersi trovato al Largo Carrobbio che per soccorrere
la sorella, cadde al suolo e fu tempestato di calci, mentre gli altri
due, che avevano tentato di intervenire in difesa del disgraziato, erano già stati dichiarati in arresto e ammanettati.
“Ammazzatela, è una prostituta,,
Quando la Andressi vide
l’innocente innocuo e malaticcio fratello così brutalmente
aggredito non potè fare a meno di gridare:
– Lasciatelo! Vigliacchi! E' un povero zoppo! Non vedete che è uno zoppo!
Le grida della donna non
fecero che inasprire maggiormente gli eroici poliziotti, i quali
abbandonata per un momento la preda, si scagliarono ormai accecati da
una brutalità cieca e bestiale, sulla Rosetta.
Uno degli agenti aveva
estratta la rivoltella e col calcio di essa colpì al petto la povera
donna che barcollò, tramortita e cadde riversa con la testa sul
selciato: un colpo sordo, che sembra le abbia prodotto una ferita alla
nuca.
A questo punto, mentre i
tre arrestati fremevano di sdegno sopraggiunsero altri agenti, uno
dei quali gridò:
– Ammazzatela: è una prostituta!
Gli aggressori
ascoltarono il bieco incitamento: la donna fu colpita da
violentissimi calci, uno dei quali alle parti genitali, che le fece
emettere un acuto grido di spasimo: poi, la povera vittima, pianse,
scongiurò di risparmiarla. Ma invano: la poliziottaglia ormai non
aveva più alcun ritegno. Dalle finestre si udirono animati e ostili
commenti: gli agenti, con le rivoltelle in pugno, intimarono a tutti
di rientrare e chiudere le finestre; non volevano testimoni. E si udì
un frastuono di vetrate chiuse in fretta…
Il tentato suicidio?!
Poi la Rosetta fu
sollevata di peso e trasportata in piazza Carrobbio. L’infelice gemeva,
più morta che viva: i segni della violenza erano impressi sul debole
corpo.
Gli agenti dovettero
avere un attimo di indecisione e di perplessità: quella disgraziata
non poteva essere trasportata a San Fedele.
Ella era ridotta in uno stato
pietoso. Si volle, allora, simulare un tentativo di suicidio? Si
pensò di dire che la donna aveva ingoiato delle pastiglie di
sublimato? Certo è che, adagiata in una vettura, gli agenti la
fecero trasportare in una vettura direttamente all’Ospedale Maggiore – e non alla più vicina guardia medica di via Cappellari:
perchè? – dove dichiararono che la Rosetta aveva ingoiato delle
pastiglie di sublimato.
Quante? Tre: ma due la aveva subito sputate!
Ci è stato assicurato
che la povera Andressi portava, è vero, spesso con sè alcune
pastiglie di sublimato: ma teneva il tubetto nascosto sotto la sottoveste;
appare dunque molto strano che, presa stretta fra gli agenti, abbia
potuto liberamente slacciarsi, per venire in possesso del veleno.
La morte
Ieri mattina Luigi
Andressi si recò invano all’Ospedale Maggiore: non vollero fargli
vedere la Rosetta. Solo più tardi permisero ad una sorella della
disgraziata di assistere l’infelice, ormai in condizioni
gravissime.
Abbiamo parlato anche con
la sorella, che si chiama Maria, e che l’altra notte dalla finestra
aveva assistito alla selvaggia scena. Ella ci ha dichiarato che la
Elvira, ormai sfinita, altro non diceva che:
– Mi hanno ammazzata! Mi
hanno ammazzata!
Senza far parola del tentativo di suicidio ed accusando atroci dolori alle parti genitali, al basso
ventre e alla nuca. La Maria vide su un braccio della infelice una
larga echimosi.
Alle ore 11.30 Elvira
Andressi spirò. La sorella chiese invano il permesso di visitare il
corpo della disgraziata.
Per una perizia
necrologica
La morte di questa
giovane donna non può giustificarsi col tentativo di avvelenamento:
di tre pastiglie di sublimato ella – pure accogliendo l’ipotesi
del suicidio – non ne avrebbe ritenuta che una. E non si è mai
dato il caso di una morte così rapida, per una tanto esigua quantità
di veleno. Noi chiediamo, che sia ordinata dall'autorità
giudiziaria, una perizia necroscopica, per accertare le cause di
questa repentina morte, che non si può con tanta leggerezza, attribuire
all'azione venefica di una o due pastiglie di sublimato. Che la Rosetta
sia stata una povera creatura del vizio, non conta.
Questo dell'Avanti! è certamente l'articolo-chiave, quello a cui, così come fa Sciascia, sono propenso a dare più credito, per la profondità dell'indagine condotta. Assolutamente rimarchevole l'utilizzo del sostantivo "poliziottaglia", che - a dispetto della bizzarria - non era infrequente all'epoca. A ruota si muovono il
Corriere della Sera e La Stampa, forse confortati dal fatto che anche le
autorità sembrano aver preso sul serio le accuse dell'Avanti! (per
il Corriere della Sera qui riproduco l'estratto dall'edizione del 29 perché più completa, ma già si
trova traccia dell'inchiesta nell'edizione pomeridiana del 28)
7 b) Corriere della Sera, venerdì 29
agosto 1913 - pag. 5
CORRIERE MILANESE
Per un'inchiesta
sulla morte d'una
presunta suicida
I funerali mancati
Narrando la ribellione
alle guardie di P.S. avvenuta l'altra notte al Carrobbio, riferimmo che una
giovane donna, arrestata fra vari altri individui, si avvelenò con
alcune pastiglie di sublimato corrosivo. L'infelice – Elvira Andressi – canzonettista, diciannovenne, abitante in via Gaudenzio Ferrari - è
morta all'Ospedale.
L'Avanti! pubblicò ieri
sull'episodio di violenza al Carrobbio particolari secondo i quali la
giovane non sarebbe morta per le pastiglie velenose, che anzi, giusta
le istesse asserzioni della Pubblica Sicurezza, non avrebbe ingoiate,
ma in conseguenza delle brutalità subite dagli agenti della squadra
mobile. Si tratta di accuse precise e circostanziate.
E' evidente che intorno a
un fatto che si presenta così grave una severa inchiesta si impone
per stabilire nette responsabilità, se ci sono.
Sappiamo che il questore, comm. Cosentino, giustamente impressionato dalle gravi affermazioni
dell'Avanti!, ha ordinato una inchiesta facendo immediatamente
interrogare le guardie che avevano partecipato al fatto. Costoro
hanno concordemente escluso di aver commesso violenze sulla povera
giovane. L'inchiesta tuttavia continuerà severa e in modo
esauriente. E' stato pure richiesto dalla Questura il certificato
rilasciato dal dott. Medaglia dirigente la sezione dei tentati
suicidi all'Ospedale. Il certificato afferma che la Andressi « è
morta in seguito ad avvelenamento per sublimato corrosivo ingoiato a
scopo suicida ». Non è stato però possibile al medico stabilire
quante pastiglie la poveretta avrebbe ingoiato.
Sul cadavere però sono
state rinvenute ecchimosi al petto, alle braccia e alle spalle, le
quali furono oggetto di attento esame durante la necroscopia.
Questa venne eseguita
ieri dal dott. De Dominicis, nella camera mortuaria del Cimitero
Monumentale. Solo dai risultati si potranno fare deduzioni meno vaghe
di quante furono fatte finora: ma le conclusioni del sanitario sono
tuttora riservate.
Ieri nel pomeriggio
dovevano aver luogo i funerali della Rosetta, e all'Ospedale Maggiore
era convenuta, per le 16, una folla di donne, compagne alla povera
morta nella sua miserabile vita.
Ma il corpo della
disgraziata era già stato trasportato al Monumentale, e quindi i
funerali non potevano più aver luogo.
Le donne, però, non si
lasciarono convincere tanto presto, alcune gridarono che si voleva
ingannarle per impedir loro di accompagnare all'ultima dimora la loro
compagna: e solo al sopraggiungere da S. Fedele di alcuni agenti della
squadra mobile, quella singolare folla femminile si disperse senza
ulteriori schiamazzi.
L'inchiesta, iniziata
dall'autorità di P.S., continua: sono stati interrogati gli agenti
che operarono l'altra notte al Carrobbio, ma tutti negarono
recisamente di avere usato modi brutali contro la Rosetta: anzi taluni
affermarono di averla trattata come una sorella.
Al contrario, però,
esisterebbero dei testimoni che avrebbero dichiarato essere stato il
contegno di qualche agente assai diverso.
7 c) La Stampa, 29 agosto 1913
– pag. 4
Una denuncia
che provoca
un'inchiesta
per un suicidio a Milano
Milano, 28, sera.
Narrandovi la ribellione alle guardie avvenuta l'altra notte al
Carrobbio, vi riferii che una giovane donna, arrestata fra vari altri
individui, si avvelenò con alcune pastiglie di sublimato corrosivo.
L'infelice — Elvira Andressi, canzonettista, diciannovenne,
abitante in via Gaudenzio Ferrari — è morta all'Ospedale.
In
proposito, l'Avanti! pubblica stamane sull'episodio di violenza al
Carrobbio, particolari secondo i quali la giovane non sarebbe morta
per le pastiglie velenose, che anzi, giusta le istesse asserzioni
della Pubblica Sicurezza, non avrebbe ingoiate, ma in conseguenza
delle brutalità subite dagli agenti della squadra mobile. Si tratta
di accuse precise e circostanziate.
Il questore comm. Cosentino,
giustamente impressionato dalle gravi affermazioni dell'Avanti!, ha
ordinato una inchiesta facendo immediatamente interrogare le guardie
che avevano partecipato al fatto. Costoro hanno concordemente escluso
di aver commesso violenze sulla povera giovane. L'inchiesta tuttavia
continua severa e in modo esauriente. E' stato pure richiesto dalla
Questura il certificato rilasciato dal dott. Medaglia dirigente la
sezione dei tentati suicidi all'Ospedale. Il certificato afferma che
l'Andressi « è morta in seguito ad avvelenamento per sublimato
corrosivo ingoiato a scopo suicida». Non è stato però possibile al
medico stabilire quante pastiglie la poveretta avrebbe ingoiato.
Per
conto mio ho parlato con un testimone, non sospetto per tenerezza
verso la mala vita, che giunse in Carrobbio quando due guardie erano
alle prese con la squadra di donne della malavita, fra le quali vi
era l'Andressi, la quale diceva che si era trovata in quel luogo per
una pura combinazione ed era uscita di casa per andare dalla sorella
che sta in piazza Vetra a portarle un « fernet » perchè si sentiva
male. Si trovò a passare per il Carrobbio al momento in cui le due
guardie intervennero per imporre la fine degli schiamazzi che faceva
un gruppo di giovanotti. L'Andressi, che è molto nota in quei
paraggi, particolarmente a tutti gli abitanti perchè fino a qualche
anno fa vi aveva abitato, si fermò e pare parteggiasse per le sue
antiche conoscenze.
Il fatto è che, mentre gli uomini riuscivano a
svignarsela, il gruppo delle donne tenne testa alle due guardie.
Avvenne infatti una violenta colluttazione, durante la quale le
guardie estrassero le daghe e cominciarono a dispensare piattonate a
destra ed a sinistra. Pare che l'Andressi in questo momento sia
rimasta colpita da una piattonata al petto. Due donne venivano
arrestate da una delle guardie e caricate sopra una vettura, mentre
l'altra guardia tentava far salire in carrozza l'Andressi. Questa si
oppose e, urlando, si gettò a terra, quasi sotto le zampe del
cavallo, nè vi fu modo di farla salire. Fu abbandonata a se stessa,
e le guardie si avvicinarono alle altre arrestate, gridando alla
Andressi: « Non dubitare, che non ci scappi! ».
Il testimonio
oculare giunse sul luogo durante questo ultimo episodio, e vide
l'Andressi che era in uno stato compassionevole. Si alzò, ma
camminava a stento, e proseguì la sua strada barcollando e
appoggiandosi al muro. Del fatto veniva avvisata una pattuglia di
agenti della squadra mobile, che giunse a Carrobio quando non c'era
più nessuno. La pattuglia si divise in due parti: una andò giù per
il corso Ticinese, l'altra per via San Vito, con lo scopo di sbucare
contemporaneamente dai due lati della via Vetraschi. Giunse, prima la
squadra che percorse il corso Ticinese, e sorprese un gruppo di
uomini e di donne in piazza Vetra, che discutevano animatamente. Nel
mezzo vi era la Andressi, che raccontava l'episodio di Carrobio.
Il
gruppo era a pochi passi di distanza dalla casa della sorella
dell'Andressi. Le guardie riconobbero subito che razza di gente era
quella colà radunata. Nacque un'altra violenta colluttazione,
durante la quale le guardie estrassero le rivoltelle. La
colluttazione fu senza cerimonie da ambo le parti: vi furono pugni e
calci e percosse di ogni genere, e l'Andressi rimase di nuovo
investita. Furono fatti parecchi arresti, e l'Andressi questa volta
fu arrestata e condotta verso Carrobbio per farla salire in vettura.
Al momento in cui fu afferrata, fu vista alzare il braccio e ingoiare
qualche cosa.
Dal gruppo dei suoi amici partirono subito grida: « Si
è avvelenata! Si è avvelenata! ». Alle quali la donna rispose,
gridando: « Dio mio, ho preso il veleno ! ».
Giunta a Carrobbio, la
donna fu fatta salire sopra una carrozza e accompagnata alla Guardia
Medica di via Cappellari.
Oggi, nel pomeriggio,
alle 16,30, erano annunziati i funerali. Davanti all'Ospedale
Maggiore fin dalle 16 tutta una folla curiosa, formata dei peggiori
elementi dei bassifondi, sostava. Le donne erano in maggior numero, quasi tutte della più bassa sfera, venute per aiutare la loro antica
conoscenza, ma i funerali non hanno avuto luogo. L'Autorità
giudiziaria ha ordinato subito stamane di tener a sua disposizione
il cadavere per l'autopsia. A mezzogiorno esso veniva portato al
Cimitero Monumentale.
8) Un passo indietro: il
padre di Rosetta
A questo punto ogni lettore si
sarà fatto una propria opinione. Per molti, a partire da Sciascia, pare
probabile che si sia trattato di una vera e propria un'aggressione degli agenti di Pubblica Sicurezza. Ma
lasciamo le indagini al mattino del 29 e facciamo un salto indietro nel tempo per capire ancora meglio chi era Elvira Andressi. Come dicevamo, la prima
comparsa di un membro della famiglia Andressi sulle colonne del
Corriere della Sera risale al 31 gennaio 1886: suo padre Eugenio, "facchino di ferrovie [...] dal fare sornione", allora ventisettenne e già padre di due figli (a
quanto ne pare, basandoci sulla nota biografica di Sciascia, ne nasceranno altri sette nei nove anni e mezzo a seguire) viene descritto in modo molto colorito. Segnalo che le traduzioni dal milanese sono mie, evidentemente non erano
necessarie per i lettori del Corriere della Sera che nel 1886 avevano tutti una naturale conoscenza del dialetto. Sottolineo ancora una volta che siamo ventisette anni prima della morte di Rosetta e già troviamo alcuni elementi che poi contrassegneranno la notte del 27 agosto 1913.
8 a) Corriere della Sera, domenica 31
gennaio 1886 - pag. 3
CORRIERE GIUDIZIARIO
Gli arrestati dell'altra
notte
Come abbiamo annunziato, i quattro arrestati della notte
precedente furono tradotti davanti al Tibunale [sic] Civile e
Correzionale, Sez. IIIa, per citazione direttissima, ieri stesso —
imputati di reato di ribellione e di resistenza opposta alle guardie
di P. S. nell'atto che si procedeva al loro arresto.
All'una pom. la piccola
sala al 1° piano era riboccante di habitués, in giacchetta, ansiosi
di vedere come sarebbe andata a finire la faccenda.
Entrata la Corte,
il presidente fa immediatamente l'interrogatorio degli imputati,
quattro pezzi di giovanotti sovabbondanti [sic] di vita e di vigoria,
meno uno che, giovane d'età, ha un aspetto piuttosto maturo.
Gl'imputati sono i
seguenti :
Macchi Bernardo, di 27
anni, verniciatore, ammogliato, padre di un fanciulletto;
grassoccio, rubicondo, robustissimo, ha fattezze d'Ercole ;
Andressi Eugenio, pure di
27 anni, ammogliato. padre di 2 figli, facchino di ferrovie; è quel
tale dal fare sornione ;
Missaglia Giovanni, di 22
anni, ombrellaio, capelluto, sbarbato.
Fogazza Battista di 24
anni, calzolaio, bel giovane, volto colorito, figura pienotta,
vigoroso, voce da basso profondo.
Dopo l'interrogatorio, il
presidente passò alla lettura dell'atto d'accusa come fu redatto
dall'Autorità di P. S., nel quale si dimostrava che all'una e mezzo
di notte, sorpresi i quattro nominati a cantare ed invitati a
smettere, essi annuirono. ma, fatti pochi passi, avevano ripreso a
cantare; e che, intimato loro l'arresto dagli agenti delle [sic] pubblica
forza, questi ebbero ad incontrare accanita resistenza, non solo, ma
il nominato Macchi, con un violento colpo di pugno e vigorose spinte
ebbe a far stramazzare al suolo il maresciallo Costa del corpo delle
guardie stesse.
Invitati gl'imputati a
rispondere, uno per uno, depongono su per giù tutti ad un modo,
negando il reato di ribellione e di resistenza ed il Macchi
personalmente insistendo di non aver dato neppure un pugno, bensì
d'aver cercato liberarsi dalle strette delle guardie che lo volevano
ammanettare.
— Capirà, signor
presidente, soggiunse il Macchi, ghe n'aveva assee adoss a mi! [ne avevo abbastanza addosso n.d.r.]
Ammise spontaneamente
d'aver bevuto oltre misura.
— Serom ciócch, el
disi bell e mi. [Eravamo ubriachi, lo dico anche io]
L'Andressi, lungo, magro,
baffuto, parla sollevando le grasse risate da parte del pubblico.
Missaglia e Fogazza,
asseriscono di non aver fatto resistenza, d'essersi lasciati menar
via, [portar via n.d.r,], e l'aver preso quattro o cinque sgiaffón
[schiaffoni n.d.r.]
Si chiamano i testi a
deporre, ed entrano il maresciallo Costa, gli appuntati Giglioli, Dal
Bono, Melangana.
Essi riconfermano i particolari dell'atto d'accusa,
ripetono che la scena accadde in via Gaudenzio Ferrari; il Costa
insiste sul pugno buscatosi in pieno petto e sugli spintoni che
l'hanno mandato a gambe all'aria.
Curiosa la deposizione
del teste Del Bene, napoletano, che dice di avere incontrato negli
imputati una resistenza positiva.
Presa la parola il
Pubblico Ministero, dott. Ambrosoli, e riassunti i fatti, trova non
farsi luogo a procedere pel reato di ribellione a carico
dell'Andressi, del Missaglia e del Fogazza. Chiede pel Macchi,
recidivo, la pena di 15 giorni di carcere, e per gli altri, come pel
Macchi stesso, 5 giorni di arresto per ischiamazzi notturni,
riitenendo [sic] per tutti computato il sofferto.
L'avvocato difensore
Contini, dimanda si limiti la pena a soli 5 giorni di arresto,
computato il sofferto.
Il Presidente chiede agli
imputati cos'hanno a soggiungere, e l'Andressi risponde che gli venga
restituito il cappello e il mantello che gli hanno confiscato.
Ilarità nel pubblico.
Il Tribunale si ritira
per deliberare. Dopo dieci minuti o poco più, rientra, ed il
presidente, ritenute le conclusioni del Pubblico Ministero così pel
Macchi come per gli altri che sono incensurati, condanna il primo a
dieci giorni di carcere pel reato di ribellione, e gli altri, nonchè il Macchi stesso, a cinque giorni d'arresto per lo schiamazzo
notturno — gli imputati poi, solidali nelle spese del processo.
Al Macchi è data facoltà
di ricorrere in Appello.
Ma, l'Ercole biondo vi
rinunzia. gam.
9) Quei satanassi dei
fratelli di Rosetta
Del padre non sappiamo
più nulla, fino alla morte (avvenuta molto probabilmente, come dicevamo, il 16 gennaio 1913 a cinquantacinque anni). Seguono vent'anni di silenzio-stampa per quanto riguarda gli Andrezzi (conosciuti sui giornali quasi sempre come Andressi), poi sono soprattutto le
imprese dei fratelli a popolare la cronaca nera del Corriere della Sera, in
particolare quelle di Alessandro ed Edmondo Andressi. Ma c'è anche un episodio che tocca Arturo Andressi, quello che avevamo visto nella tragica notte come "il fratello buono" e che l'articolo dell'Avanti! ci dava come incensurato. Ed in effetti lo era perché, come vedremo qui sotto (9.4), nel 1907, processato (si intuisce per furto) era stato "dichiarato esente da pena per mancanza di discernimento"
9.1 Riccardo: Il primo a
comparire in cronaca è però Riccardo (del quale - a differenza
degli altri - non siamo sicuri al 100% che sia uno dei fratelli di Rosetta).
9.1 a) Corriere della Sera,
domenica 25 marzo 1906 - pag. 5
Una rissa in via Pisacane. — Ieri
sera, verso le 21, in via Pisacane, venivano a rissa due comitive, le
quali, già poco prima, in un'osteria, erano venute a parole.
Nella rissa che si
impegnò sotto la pioggia dirotta, vi furono due feriti, per quanto
lievemente, i quali dovettero ricorrere alla Guardia medica di porta
Venezia. Essi sono il cuoco Riccardo Andressi, d'anni 31, abitante in
via Ciovasso, 7, ed il pulitore di metalli Alfredo Cincirelli, d'anni
18, abitante in via Pisacane, 38.
9.1 b) Corriere della Sera, venerdì 16 giugno 1911 - pag. 6
Una ragazza borseggiata in Duomo
Mentre stava uscendo dal
Duomo, ieri mattina alle 10.30, la ragazza Elisa Bini, di 25 anni, abitante in piazza Fontana 1, si sentì strappare da un individuo la
sua borsetta contenente poche lire.
Ella chiamò aiuto e le
persone che uscivano con lei dal tempio rincorsero il ladro, il quale
rapidamente fuggiva verso via Arcivescovado.
Ai cittadini si unirono
anche due guardie di città, che raggiunsero nella via stessa il
fuggiasco, col quale poi impegnarono una violenta colluttazione. Il
borsaiuolo potè essere quindi ammanettato e condotto alla Questura
centrale, dove fu riconosciuto per il pregiudicato Riccardo Andressi,
di 28 anni. abitante in via S. Andrea, 2, cuoco disoccupato.
9.1 c) Corriere della Sera, martedì 20 giugno 1911- pag. 5
Per un arresto. - Il signor Luigi
Andressi ci prega di dichiarare che egli non ha nulla di comune col
pregiudicato Riccardo Andressi che all'atto del suo arresto, avvenuto
alcuni giorni fa, disse di abitare in via S.Andrea, 2, dove abita
l'Andressi Luigi, mentre invece l'arrestato è senza fissa dimora.
9.2 Alessandro: Ma eccoci
ad Alessandro ed Edmondo (di quest'ultimo ci occuperemo tra poco) che l'11 aprile sono condannati per furto (il primo articolo qui sotto contiene parecchie discrepanze
con articoli successivi, probabilmente le loro età sono invertite). Si noti anche la presenza di un
dodicenne tra i correi!
9.2 a) Corriere della Sera,
giovedì 12 aprile 1906 - pag. 4
TRIBUNALE PENALE DI
MILANO
Notiziario
(Udienza dell'11 aprile.
— Sez. III: presidente Bonazzi e P. M. Vedovi. (...)
Furto. — (Sezione III):
(...) Andressi Alessandro, d'anni 18; Andressi Edmondo, d'anni 16;
(…) Caielli Cesare, di anni 12; Villa Enrico, d'anni 19; (…)
Rossi, Caielli, Villa Enrico, Andressi Alessandro ed Edmondo,
imputati di correità in furto qualificato di stoffa per lire 159.90;
il Caielli imputato di furto con destrezza d'un orologio di nickel; il Pelizza imputato di furto con destrezza di somma imprecisata di danaro, condannati (…) l'Andressi Alessandro a mesi 3 di reclusione e L. 60
di multa; Andressi Edmondo a mesi 5 di reclusione e L. 100 di multa; Pelizza a mesi 7 e giorni 15 di reclusione, Caielli a mesi 6 e giorni 7 di reclusione e L. 50 di multa;
Villa Enrico a mesi 3 di reclusione e L. 100 di multa.
Lasciamo per un attimo Edmondo e continuiamo a seguire il
percorso di Alessandro, condannato l'anno seguente per lesioni,
minacce e oltraggio:
9.2 b) Corriere del Pomeriggio,
mercoledì 2 ottobre 1907 - pag. 4
Notiziario
(Udienza del 1° ottobre.
— (...) Sez. IV : presidente
Caraffini e P. M. Guidi). (...)
Lesioni. — (Sez. IV):
Andressi Alessandro, d'anni 17, imputato di lesioni, minacce ed
oltraggio, condannato a giorni 27 e lire 60 di multa. (...)
L'anno dopo, 1908
Alessandro è coinvolto in un altro episodio che ricorda i fatti di
cinque anni dopo che porteranno alla morte di Rosetta:
9.2 c) Corriere della Sera,
lunedì 27 luglio 1908 - pag. 5
Ribellione alle guardie
di città •
In piazza Vetra e a San
Cristoforo
Agente ferito e sette
arresti
Le guardie di città
Giovanni Raffaele e Michele Vizini, adibite alla sorveglianza di
piazza Vetra, intervennero ieri sera fra due individui che si
percuotevano presso l'angolo di piazza Vetra e di via Vetraschi. I
due litiganti, allora cessarono di percuotersi e offesero gli agenti.
Questi fecero per arrestarli e quelli si ribellarono. Le voci
concitate delle due parti, provocarono un agglomeramento di passanti.
Dopo pochi minuti i due agenti si videro circondati da circa duecento
persone le quali assunsero, in gran parte, le difese degli arrestati,
col consueto grido « molla, molla! » Gli agenti estrassero la
rivoltella per incutere timore alla folla ma dovettero rinunciare
all'arresto dei loro offensori; però si recarono alla Sezione II di
questura per denunciare fra i violenti difensori degli arrestati
coloro che avevano potuto riconoscere.
Tosto il commissario Pini
della II sezione coadiuvato da una squadra numerosa di agenti si
poneva alla ricerca dei colpevoli e cinque ne arrestava in luoghi
diversi. Essi sono: Ercole Bonfanti di 22 anni, fabbro ferraio,
abitante in via Vetraschi, 3; Guido Padovani, d'anni 20, in via
Vetraschi, 28; Alessandro Andressi, d'anni 18, fruttivendolo, in via
Vetraschi, 32: Antonio Vaccarini, d'anni, 29, vigilato speciale,
nella stessa via al n. 26 e Luigi Podetti, d'anni 24, bottaio,
abitante in via Gentilino, 4. Essi vennero tutti condotti al
Cellulare.
— Quasi alla stessa ora
in Ripa di porta Ticinese — presso S. Cristoforo — la guardia di
città in borghese Carmolo Sangrigoli veniva aggredito — com'egli
ha riferito alla sezione X di Questura — dal manovale Carlo Rizzi
d'anni 25, abitante in via Cola di Rienzi, [sic] 15, già processato per
furti e per oltraggi, e da certo Mario Valenti, d'anni 23,
domiciliato a San Cristoforo. L'agente ricevette qualche pugno ma si
difese energicamente cercando, anzi, di non lasciarsi sfuggire i suoi
aggressori. Poi in suo aiuto accorsero due altre guardie di città e
un vigile turbano. Tra i quattro agenti e i due aggressori s'impegnò
una più violenta colluttazione la quale finì coll'arresto del Rizzi
e del Valenti. Mentre costoro venivano condotti alla Sezione X in via
Meda, una delle due guardie giunte seconde, chiamata Confailla, si
faceva medicare, in una farmacia, la mano sinistra che durante la
colluttazione era rimasta ferita.
Successivamente
Alessandro si rende di nuovo protagonista di una serie di
rocamboleschi furti:
9.2 d) Corriere della Sera,
giovedì 5 novembre 1908 - pag. 4
La brutta sorpresa d'un
oste
Fuga di due ladri - Un
arresto
Un'avventura poco piacevole è toccata a tal Gaetano Allievi, un uomo di circa cinquant'anni, che esercisce osteria al numero 15
della via Campo Lodigiano.
L'Allievi sere sono si
trovava nell'osteria quando avvertì del rumori provenienti dal piano
superiore dov'è la sua abitazione. Gli parve che delle persone
camminassero e si muovessero con circospezione. L'Allievi, sapendo
che nessuno doveva trovarsi in casa sua a quell'ora, rimase
impressionato ed ebbe l'improvviso sospetto d'una visita di ladri. Il
suo sospetto non era sbagliato: salito all'appartamento, l'oste si
trovò di fronte a due sconosciuti. Uno era un giovanotto alto,
aitante dalla persona, completamente sbarbato e vestito da operaio;
più basso l'altro e anche, all'aspetto, più giovane, con un berretto
da ciclista in capo. I due malandrini, alla vista dell'oste, non
esitarono un sol momento a darsi alla fuga. L'uno, dato uno spintone
all'oste, riuscì a infilare l'uscio della scala; l'altro saltò
dalla ringhiera al pianterreno. L'Allievi, riavutosi un poco dalla
sorpresa, si diede a gridare. Accorsero parecchi inquilini, ma i
ladri non tardarono a guadagnare la strada e a scomparire.
L'Allievi
fece una rapida verifica nel suo appartamento. Egli aveva subito
fortunatamente un lieve danno: alcuni cassetti erano stati aperti, ma
i ladri non avevano avuto il tempo che di rubare un orologio di poco
valore.
Denunciato il furto alla sezione di via Poslaghetto, il
commissario cav. Pini fece subito attive e diligenti indagini per
iscoprirne gli autori. Uno di questi potè essere identificato e
arrestato dalle guardie della seconda sezione. E' un audace e
pericoloso pregiudicato, molte volte condannato per furto, certo
Alessandro Andressi, d'anni 18 senza fissa dimora e senza
occupazione.
9.2 e) Corriere della Sera,
sabato 22 maggio 1909 - pag. 5
Imprese ladresche
Un bottino pesante, una
bicicletta e un portafogli
(...)
— Il giornalaio
ambulante Paolo Perelli aveva lasciato incustodita per pochi minuti
presso l'atrio della casa in via Revere, 14, la propria bicicletta,
che un individuo, con la complicità d'un altro, si appropriò.
Il giornalaio, sorpresi i
due mariuoli, che si allontanavano, diede l'allarme.
L'autore
principale del furto, pedalando velocemente, riuscì a fuggire sulla
bicicletta rubata, mentre il complice, il diciannovenne Alessandro
Andressi, noto pregiudicato, senza fissa dimora, venne raggiunto da
due guardie di città ed arrestato.
9.2 f) Corriere del Pomeriggio,
sabato 22 gennaio 1910 - pag. 6
Una banda di ladri e
ricettatori
Arresti e sequestri
Sono stati deferiti
all'autorità giudiziaria in istato d'arresto i pregiudicati Villa
Ludovico, di anni 20 (viale Genova, 20), Cantoni Luigi (S. Vito, 28) e
i latitanti Bosoni Carlo (via Vetraschi, 18, e Andressi Alessandro
(Cagnola, 8), i quali devono rispondere di furti di danaro e oggetti
d'oro, per rilevante valore, commessi nello scorso dicembre in danno
dell'esercente Cossa Emilio (via Ausonio) e del fruttivendolo De
Martini Giuseppe.
Gli stessi sono inoltre
ritenuti correi di tentato furto in danno di certo Piacentini
Benvenuto, tentativo commesso la sera del 30 scorso in cui fu
sorpreso in flagrante e arrestato il pregiudicato Del Mare Antonio.
Furono inoltre arrestati
e deferiti all'autorità giudiziaria i pregiudicati Petri Armando, di
anni 19, meccanico, con negozio di biciclette in via Vigevano, 33, e
il garzone Polizza Antonio, di 18 (viale Genova, 16), responsabili di
ricettazione dolosa di una quantità di tubi di soluzione per
copertoni di biciclette, rubati in danno della ditta Venturini e C.
in via Solferino, 10.
La merce rubata venne sequestrata
nell'abitazione del Petri, nella quale pure si rinvenne una quantità
di portafogli e di borsette di cuoio di assodata provenienza furtiva
ad opera del fratello del Petri, Arnaldo, di anni 18, in danno della
ditta Foresti e Lanfranchi, in via S. Croce, ove era addetto quale
commesso. Quest'ultimo è però latitante.
9.2 g) Corriere del Pomeriggio,
martedì 11 ottobre 1910 - pag. 6
Tre arresti per un
recente furto in via Tre Alberghi
Da alcuni giorni la
Sezione seconda di pubblica sicurezza si occupava alacremente di un
furto recentemente perpetrato in via Tre Alberghi, 17, a danno del
negoziante Antonio Gozzi. Gli agenti incaricati della faccenda
riuscirono ad identificare l'autore dell'audace impresa ed i suoi
complici, e fecero diversi appostamenti per poterli trarre in
arresto. Un appostamento di questa notte diede felice risultato: tre
individui furono sorpresi dalle guardie e tratti in arresto. Essi
tentarono di darsi alla fuga, ma inutilmente.
Gli arrestati si
chiamano: Armando Seveso, d'anni 30, abitante in via Vetraschi, 14; Luigi Capitelli, d'anni 24. dimorante in corso Romana, 116, ed
Alessandro Andressi d'anni 20, abitante in via Monterosa. 12. Tutti e
tre sono disoccupati. Il Capitelli è un ex-ferroviere. L'Andressi è
ritenuto l'autore principale del furto: gli altri due devono
rispondere di ricettazione dolosa.
9.3 Edmondo: Edmondo
non è da meno rispetto ad Alessandro, sia nei furti, sia nella resistenza alle forze
dell'ordine, ma adotta un modus operandi forse ancora più
violento rispetto ad Alessandro. Edmondo inizia presto a entrare nel giro, anche se inizia con un'assoluzione "per non provata reità" e poi si accompagna con amici equivoci, veri "ragazzacci".
9.3 a) Corriere della Sera - sabato 28 aprile 1906 - pag. 2
TRIBUNALE PENALE DI MILANO
Notiziario
(...) Rapina. - (Sez. VII) : Caielli Olimpio, di anni 20, Andrezzi Edmondo, d'anni 16, Marcelli Emilio, d'anni 18, Fraschini Francesco, d'anni 16, Marchini Alfredo, d'anni 20, imputati il Caielli di rapina, gli altri quattro di complicità in detto reato: condannato il Caielli a mesi 45 di reclusione ed 1 anno di vigilanza speciale; asolti [sic] gli altri quattro per non provata reità.
9.3 b) Corriere della Sera - 19 dicembre 1906 - pag. 4
TRIBUNALE PENALE DI MILANO
Il figlio dell'assassinata di Via Ripamonti
Fra gli imputati comparsi ieri alle settima sezione del Tribunale, vi fu il pregiudicato diciassettenne Luigi Ciceri, figlio della « polentaia » Carolina Riva, uccisa la mattina del 4 dicembre col proprio cugino ed amante Ernesto Farè nella sua bottega in via Ripamonti. E' noto che il Ciceri fu arrestato la mattina stessa del fatto in piazza del Duomo e che tosto si elevò contro di lui l'accusa del duplice omicidio; ma che i sospetti sul suo conto perdettero in seguito consistenza per l'alibi da lui avanzato e che sembra anzi accertato. Il processo svoltosi ieri in Tribunale si riferisce appunto all'arresto del Ciceri, avvenuto per disturbo alla quiete pubblica, poichè il ragazzaccio stava schiamazzando col suo amico diciannovenne Edmondo Andrezzi, e ciò mentre essi erano in compagnia di tre donne di malaffare. Siccome poi opposero resistenza all'arresto, tanto il Ciceri quanto l'Andrezzi dovettero rispondere anche di questo secondo reato; ed il Ciceri era infine imputato, in particolare, di possesso ingiustificato di 120 lire.
Il Tribunale condannò i due imputati a due mesi di reclusione ed a 25 lire di ammenda ciascuno, ed assolse il Ciceri dalla terza imputazione, essendo risultato che quella somma non fu rinvenuta indosso a lui, ma in sua casa, sotto il materasso della madre uccisa.
Presidente (sezione VII): avv. Salvi; P. M.: avv. Minardi; difesa: avv. Venanzi.
9.3 c) Corriere della Sera, sabato 24 agosto 1907 - pag. 4
Notiziario
Udienza del 23 agosto 1907: (...)
Truffa. — (Sez. IV): Rimassi Agstino, di anni 20; Manzoni Ettore, di anni 18; Armanini Luigi, di anni 19; Zecca Giuseppe, di anni 21; Andrezzi Edmondo, d'anni 18, imputati il 1. di truffa, il 2. di esercizio arbitrario delle proprie ragioni e di acquisto d'oggetti provenienti da reato; il 3. e 4. di acquisto pure di oggetti di furtiva provenienza, ed il 5. di lesioni; assolto il Rimassi per inesistenza di reato; condannato il Manzoni a giorni 25 d'arresto per l'acquisto d'oggetti e assolto per l'esercizio arbitrario dello proprie ragioni; l'Armanini e lo Zecca a lire 50 d'ammenda; ed assolto l'Andrezzi per mancanza di querela.
9.3 d) Corriere del Pomeriggio,
lunedì 21 giugno 1909 - pag. 5
Visite di guardie che
provoca una ribellione
La visita venne
effettuata, ieri sera alle ore 22.45, dalle guardie di città Licato e
Catania nell'osteria di piazza Vetra, 11. Esse chiesero e seppero
dall'oste a che ora si chiudeva il suo locale. Uscite che furono si
videro circondate da giovinastri che in quell'osteria si trovavano.
I giovinastri insolentirono le guardie; queste usarono per un po'
prudenza, ma gli altri tentarono di percuoterle. Uno degli agenti
sparò, per richiamare l'attenzione di altre guardie, due colpi in
aria.
Le detonazioni misero in fuga i ribelli e fecero accorrere
parecchi agenti. Si determinò così un inseguimento generale per
piazza Vetra. Uno solo degl'inseguiti venne raggiunto: egli è il
pregiudicato Edmondo Andressi.
9.3 e) Corriere del Pomeriggio,
venerdì 28 ottobre 1910 – pag. 5
Di ritorno dalla
caccia....
Di ritorno da una partita
di caccia in quel di Pavia, certo Cesare Grossi, d'anni 24 (dimorante
in via G. Ferrari. 16), se ne veniva l'altra sera a Milano. Era di
buon umore ed aveva a quanto pare gran desiderio di raccontare le sue
gesta venatorie a qualcuno, poichè appena gli si offerse l'occasione
si accompagnò a tre individui. Si fece presto amicizia, cosicchè
giunta in città la comitiva decise di passare qualche ora insieme.
Il cacciatore si lasciò condurre dagli improvvisati suoi amici in
via Vetraschi, e quindi in un'osteria, dove fu passata allegramente
la serata. Ma i tre avevano progettato un brutto tiro all'ingenuo
seguace di Nembrotte. Usciti dall'osteria, l'ora si era fatta tarda,
i tre si inoltrarono coi Grossi, fiducioso di continuare a
divertirsi, per vie buie e deserte. Ad un certo punto gli furono
addosso e ridottolo all'impotenza, gli tolsero anzitutto il fucile,
quindi il portafogli contenente 55 lire. Appiopparono per giunta al
malcapitato alcuni pugni e calci, e fuggirono. Il Grossi denunciò la
rapina alla seconda sezione di P. S.
Nel pomeriggio di ieri il
delegato avv. Casiello coadiuvato dalle guardie Petrosillo e
Casablanca, si mise alla ricerca dei tre malfattori, che colle
indicazioni fornite dal derubato, poterono essere facilmente
identificati.
Dopo di aver frugato i luoghi solitamente frequentati
dai malviventi riusciva a scovarne due in un'osteria e trarli in
arresto. Essi sono i noti pregiudicati: Edmondo Andressi, d'anni 21,
dimorante in via Vetraschi, 3 e Ferdinando Lanzi, d'anni 20. II
Lanzi, che deve fare il servizio militare, era dal giorno 25 in
congedo provvisorio, in attesa della destinazione di residenza. Per
ora egli è stato destinato al Cellulare.
E poi ecco ancora Edmondo
violento e con un mal inteso senso dell'onore della famiglia
protagonista dell'episodio forse più interessante, quello che apre
una luce davvero definitiva sulla famiglia Andressi: con tre sorelle
Andressi difese, non sappiamo quanto correttamente, da un certo
Angelo Bocchiola dalla violenza del fratello.
9.3 f) Corriere della Sera,
mercoledì 7 maggio 1913 - pag. 4
TRIBUNALE PENALE DI
MILANO Amore, rivoltella, vetriolo...
Due episodi drammatici e due processi non privi di qualche comicità, se non entrambi a lieto fine: storia di coppie posticce, epperò storia di tutti i giorni in un secolo di libertà, con i soliti ingredienti di gelosie, rabbuffi, travasi di bile e di vetriolo, e con contorno di proiettili di rivoltella andati a male, per fortuna...
(...)
Secondo episodio. Angelo Bocchiola, dopo di
avere amato una signorina Andressi, si stabilì, come un autentico
marito, presso una sorella di lei e, per naturale riflesso, prese a
proteggere anche la terza della serie: una figurina bionda di
diciott'anni, che è una stella del firmamento operettistico.
Ma le tre grazie hanno un
fratello: Edmondo Andressi, un giovane violento condannato varie
volte e che tuttavia sente profonda l'avversione per certe posizioni
equivoche.
Ed è per questo che
nell'ottobre u. s., dopo avere percosso per varie cause la sorella
artista, l'Edmondo, trovatosi di fronte il Bocchiola che proteggeva
la cognatina posticcia estrasse, tutto acceso d'ira, la rivoltella, e
lo minacciò nella vita. Il Bocchiola, alla sua volta, impugnò una
rivoltella e, fra il fuggi fuggi dei cittadini — poichè erano in
strada — si svolse il pericoloso duello. Nessuno dei contendenti,
però, fu ferito e l'unica vittima fu una povera donna incinta che,
svenuta per la paura, dovette essere trasportata all'Ospedale e colà
operata per parto prematuro.
Questo processo si è
svolto alla IV sezione. presieduta dall'avv. Allara: P.M. il cav.
Sola, e difensori gli avv. Agnelli e Romita. Il Tribunale inflisse 7
mesi e 20 giorni all'Andressi e 6 mesi e 5 giorni al Bocchiola.
L'articolo con l'esito
processuale della rissa tra Edmondo e Angelo Bocchiola è del maggio
1913, i fatti però si riferiscono all'ottobre precedente: rissa ad
ottobre 1912, processo a maggio 1913. Qui veniamo a sapere che
Rosetta era diventata "una stella del firmamento operettistico".
(Stava cambiando vita? E se sì, fino a che punto?). Ed in effetti
Rosetta aveva debuttato in un teatro di varietà importante, il San
Martino, con il nome di Rosetta di Voltery.
9.4 Arturo
9.4 a) Corriere della Sera, domenica 10 marzo 1907 - pag. 2
In piena via Vetraschi
Romeo Zucchi, detto Vaiano, cinquantenne, la cui fedina criminale dopo avere riferito quattordici condanne, molto riassuntivamente conclude: « ed altre diverse fino al numero di ventidue », abitualmente acquistava i proventi dei furti che i delinquenti minorenni di via Vetraschi commettevano. L'ultima sua operazione.... commerciale gli fruttava sedici tovaglioli nuovi, che pagò lire 2,60, dodici cucchiaini per 40 centesimi, ed altre posaterie, e saliere e cogome [dial. per bricchi, caffettiere n.d.r.] rubate ai bazar, che acquistò sempre per vil prezzo.
Così il tavolo della presidenza fu ieri convertito in una specie di ripostiglio da Hôtel, con merce tutta nuova.
Lo Zucchi, per pagare i suoi piccoli fornitori si sarebbe valso due volte del lattaio di via Vetraschi, Angelo Monti: di qui l'imputazione di ricettazione a suo carico nonché dell'oste Santo Nobili, che fu trovato in possesso di cose che erano di provenienza dei furti consumati dai minori, certi Angelo Scucchi, Osvaldo Umiltà, Arturo Andrezzi e Attilio Beretta, i quali confessarono i loro delitti con un candore che non è la privativa di via Vetraschi.
Il processo si svolse alla quarta sezione presieduta dall'avv. Bernardi; P. M. l'avv. Noseda. Lo Scucchi, e l'Umiltà — difesi dall'avv. Borzoni — furono condannati a 3 mesi e mezzo di reclusione, da scontarsi in una casa di correzione; il Beretta — difeso dall'avv. Besta — a giorni 32 di reclusione da scontarsi in una casa di correzione; l'Andrezzi — difeso dall'avv. Perelli — fu dichiarato esente da pena per mancanza di discernimento; il Nobili — difeso dall'avv. Solari — fu condannato a 2 mesi di arresto; il Monti — difeso dall'avv. Tarugi — fu assolto per non provata reità; il principale accusato, Zucchi — difeso dall'avv. Costa — fu condannato a 8 mesi e 15 giorni di reclusione ed a 70 lire di multa.
10) Il furto
all'oreficeria Archenti (e altre storie)
10 a) Corriere della Sera,
venerdì 25 luglio 1913 - pag. 4
TRIBUNALE PENALE DI
MILANO
Il processo indiziario
per il furto all'oreficeria Archenti
Dopo il processo per il
furto macabro in casa del rag. Porlezza, eccoci a quello per il
furto, altrettanto audace se non sacrilego, in danno dell'orefice
Archenti sotto i portici settentrionali. Qualche connessione tra
l'uno e l'altro parve esistere alla polizia ed anche al dibattimento
non sembra esclusa per la presenza di taluno degli imputati di
quell'altro processo ed anche per qualche risultanza ad entrambi
comune.
Il furto all'oreficeria
Archenti avvenne il 26 ottobre dell'anno passato ed ha fatto
impressione per l'ora e la località in cui fu consumato. Si stava
lavorando all'ingrandimento del locale. Una parete del negozio era
stata demolita e sostituita con altra di legno. Alle ore 20 circa il
signor Archenti usciva dal negozio chiudendolo. Alle 22.30 il
commesso, il quale aveva l'incarico di custodire il locale
dormendovi, ritornava ed avveniva che il furto era stato compiuto. I
ladri, probabilmente nascostisi nella cantina, avevano scostata
un'asse della parete provvisoria ed erano penetrati nel negozio
portando via catene da orologio, orecchini ed altri oggetti per un
valore di 12.000 lire.
Nessuna traccia degli
audaci, e la Questura per qualche tempo brancolò nel buio. Senonchè, in seguito alle rivelazioni di certo Silvio Citterio, confidente
della polizia, furono arrestati Attilio Orlandi, Emilio Gambini e
Amedeo Dapò con le loro amanti e con qualche altro imputato di
favoreggiamento e ricettazione.
Quei tre siedono ora sul
banco degli imputati, in istato d'arresto, per rispondere di furto:
il primo come autore principale e gli altri due quali correi insieme
con Elvira Andreassi nota nel mondo equivoco e galante col soprannome
di Rosetta, amica dell'Orlandi: Italo Orlandi, detto « Tartaglia »,
Remo Colombo — conoscenza questa del processo per il furto in casa
del morto —, Romeo Pelegatta [sic] e Fulvia Ziletti che giorni sono
sposava il Gambini in carcere: tutti comparsi a piede libero.
Una circostanza importante
Il presidente avv. Grugni
procede all'interrogatorio dell'Orlandi, un bel giovanotto sulla
ventina, sbarbato, vestito con una certa eleganza, il quale nega
recisamente di avere cooperato al furto. Egli dice di essersi
domiciliato qualche tempo prima a Musocco insieme con l'amante per
non contravvenire, mancandogli ivi l'occasione, alla vigilanza
speciale alla quale era sottoposto. Il 26 ottobre se ne andò —
dice lui — presto a letto e quando, verso le 22, le sua amante
ritornò in casa in compagnia del Citterio lo trovò che dormiva
— Il Citterio —
osserva il presidente — disse in istruttoria di avervi visto a
letto soltanto a mezzanotte.
— Non è vero —
ribatte l'Orlandi Attilio. — Quando il Citterio venne in casa con
la Rosetta potevano essere le 21:30 o le 22.
La circostanza è
importante in quanto il furto è avvenuto, come dicemmo, prima delle
22.
Il presidente contesta
quindi altre circostanze all'imputato.
— Vi hanno visto,
quella sera, con il Gambini.
— Non è possibile. Chi
afferma ciò dice il falso.
— E come spiegate le
spese che avete incontrate in quel periodo di tempo?
— Non ho fatto spese
eccessive.
— Non avete regalato
una pelliccia da 900 lire alla vostra amante?
— Sì, ma la pelliccia
fu presa a credito.
— Non avete dato 500
lire a vostra madre?
— Temevo di spenderle
tenendole io, e le diedi a mia madre perché mi conservasse questi
nostri risparmi.
Il presidente chiede
infine spiegazioni all'Orlandi Attilio circa due schizzi che
sarebbero stati trovati in casa sua e che dai periti sarebbero stati
ritenuti corrispondenti alla topografia del negozio Archenti.
— Quegli schizzi —
spiega l'imputato — si riferiscono invece ad un altro furto
compiuto da altro mio fratello, Giuseppe, nel villino Caprotti in via
Mario Pagano.
Più spicci seguono gli
interrogatori degli altri imputati: tutti negativi. Anche al Gambini
il presidente contesta le spese eccessive incontrate in quell'epoca.
— Voi avete acquistato
un negozio di fruttivendolo pagandolo 1000 lire in contanti.
Durante il periodo
istruttorio il Gambini aveva date parecchie versioni e finalmente al
dibattimento si ferma sopra la narrazione di una pretesa eredità di
400 lire da parte di un suo zio a cui egli avrebbe aggiunto alcuni
risparmi suoi.
Quanto al Dapò, che avrebbe fornito le indicazioni
sulla preparazione del furto poichè egli si era trovato nella sua
qualità di meccanico ad eseguire alcuni lavori alla banca Ponti, i
cui uffici sono attigui al negozio Archenti, si limita alle proteste
d'innocenza affermando di non avere mai conosciuto nè il Gambini nè
l'Orlandi.
II tranello dell'agente
Oltre al Citterio, anche
il fratello del principale imputato — Italo Orlandi — si era
lasciato sfuggire, mercè uno strattagemma della Questura, rivelazioni
compromettenti per gli attuali imputati. La Questura infatti aveva
introdotto nella guardina ov'era rinchiuso l'Italo Orlandi un
agente in borghese, il quale si disse arrestato per false generalità,
ed ottenuta la confidenza dell'Italo, seppe da lui essere stato il
furto Archenti consumato dal fratello Attilio, mentre il Gambini e il
Dapò attendevano sulla strada. La refurtiva era stata prima portata
ad un caffè di corso Ticinese, noto ritrovo della malavita, e poi in
casa dell'Orlandi. L'Italo avrebbe detto, inoltre, che mentre si stava osservando
la refurtiva si sentì picchiare alla porta e temendosi una visita
importuna, egli fece un fagotto dei gioielli, pronto a gettarli dalla
finestra. Chi picchiava, invece, era la giovane Andressi. La
refurtiva fu qualche giorno dopo venduta per 3.400 lire.
L'Italo Orlandi. che è
molto balbuziente — ciò che spiega il suo nomignolo — protestò
energicamente più a gesti che con la parola, contro la narrazione
della guardia, dicendola un'invenzione.
— E se non è
un'invenzione — osserva l'arguto presidente — bisogna dire che la
guardia fosse molto intelligente e paziente per capirvi!
Gli interrogatori degli
imputati minori non presentano alcun interesse. Anche questi si
dichiarano innocenti.
Dopo la deposizione della
parte lesa signor Archenti, sul modo come presumibilmente sarebbe
avvenuto il furto, si inizia l'esame testimoniale. Sfilano, tra
altri, parecchi portinai, alcuni dei quali riconoscono, sebbene con
qualche incertezza, nell'Orlandi Attilio l'individuo che la sera del
26 ottobre sarebbe uscito dallo stabile dove l'Archenti ha il suo
negozio.
Il processo continuerà
per altri due o tre giorni. Intanto si annuncia per oggi un
sopraluogo al villino Caprotti allo scopo di stabilire se gli schizzi
trovati presso l'Orlandi Attilio corrispondono, come questi afferma,
alla costruzione dei villino stesso, oppure, come dichiararono i
periti, alla topografia del negozio Archenti.
Rappresenta il P. M.
l'avv. Turrini; difendono gli avv. Beltramelli, Jacchia, Dominione,
Romita, Melone. Ugo Marcora, De Grandi e Carnielli.
10 b) Corriere della Sera, martedì 29 luglio 1913
Le richieste del P. M.
nel processo per il furto all'orefice Archenti
E' continuata ieri la
discussione del processo per il noto furto alla gioielleria Archenti.
Finite le testimonianze a discarico, il P. M. avv. Turrini, ha
pronunciato la sua requisitoria, durata quattro ore. Egli sostenne la
colpabilità di quasi tutti gli imputati ed infine richiese le pene
seguenti: per l'Attilio Orlandi, 3 anni e 10 mesi di reclusione, per
il Gambini pure 3 anni, per il Dapò, imputato di complicità 1 anno
e 6 mesi, per Guido Orlandi 5 mesi e 83 lire di multa, per
ricettazione. Per le due donne Andressi e Ziletti, imputate di
favoreggiamento 3 mesi di reclusione. A questi ultimi tre propose la
condanna condizionale.
Per il Colombo ed il Pellegatta, richiese
l'assoluzione per non provata reità.
10 c) Corriere della Sera,
mercoledì 30 luglio 1913 - pag. 4
TRIBUNALE PENALE DI
MILANO
La sentenza nel processo
per il furto al gioielliere Archenti
E' terminato ieri sera il
processo iniziato giovedì della scorsa settimana, per il grave furto
commesso il 26 ottobre u. s. nell'oreficeria Archenti sotto i Portici
Settentrionali.
Dopo le arringhe dei difensori Melone, Romita,
Beltramelli, Marcora, Jacchia e Carnielli, il Tribunale ha ritenuto
colpevoli del furto: l'Attilio Orlandi e l'Emilio Gambini,
condannandoli, il primo ad 1 anno, 9 mesi e 17 giorni di reclusione,
colla scusante della semi-infermità mentale, ed il secondo imputato,
di complicità nel furto stesso, ad 1 anno e 6 mesi.
Ha mutata l'imputazione
dell'Orlandi Guido in quella più lieve di favoreggiamento e lo ha
assolto anche da tale imputazione. Ha poi assolto: l'Elvira Andressi
e la Fulvia Ziletti, imputate di favoreggiamento, per non provata
reità. Pure per non provata reità ha mandato assolto il Romeo
Pellegata e Amedeo Dapò e per il Remo Colombo ha dichiarato il non
luogo a procedere per non avere commesso il fatto imputatogli.
Dopo la sentenza la
Ziletti ha dato in smanie per la condanna riportata dal Gambini. Come
è noto, essa si è unita a lui in matrimonio da pochi giorni. La
cerimonia nuziale ebbe luogo in carcere.
Rosetta è scagionata, ma
molti sospetti restano. Certamente si trova in un momento della sua
esistenza in cui sta provando a cambiare vita, ma il
processo la riporta a un tempo precedente, sia pure di soli pochi
mesi: ma a diciassette anni, quei nove mesi passati possono essere un'eternità.
Insomma quanto arriva la serata che le è fatale Rosetta è in un
momento particolare del proprio convulso percorso umano: appena
scagionata in un processo importante e forse proiettata verso un futuro da
cantante. Non sappiamo se in questa fase sia ancora attiva come
prostituta e nemmeno se sia ancora in contatto con l'amante (o protettore? O amante-protettore?) Attilio
Orlandi (probabilmente no) o con il suo "difensore" Angelo Bocchiola. Non
depone molto in suo favore nemmeno la spiegazione che fornisce per essersi
trovata in strada in piena notte in quel fatale 27 agosto (portare un fernet alla sorella). Sembra quasi una delle giustificazioni ricorrenti delle prostitute di
allora: se fermate raccontavano alla buon costume di essere state
sorprese a passeggiare proprio mentre si recavano da un amico o da un
parente.
11) Autopsia, indagini,
funerale.
Ma avevamo lasciato le indagini sulla morte di Rosetta
ferme ad un bivio: vediamo cosa succede nel racconto dei giornali
dell'epoca.
11 a) Corriere della Sera,
venerdì 29 agosto 1913 - pag. 6
Corriere Milanese
I funerali dell'Andressi
mancati
Una circostanza significante
(...)
Le indagini hanno
rivelato poi una circostanza assai importante e che pare escluda le
responsabilità attribuite alle guardie di P.S. le quali, secondo una
voce che pure abbiamo raccolta, avrebbero percosso la disgraziata
donna così da procurarle la morte.
E' stato dunque accertato
che la Andressi domenica sera entrò in un caffè del centro
sollecitando da un direttore di teatri di varietà presente una
scrittura per fuori di Milano. Ella dichiarò che voleva abbandonare
Milano per sfuggire alle persecuzioni del fratello, il quale -
secondo quanto ella disse - la trattava brutalmente.
Ed a prova delle sue
accuse contro il fratello, mostrò delle ecchimosi al petto ed alle
braccia.
L'articolo ribadisce quanto già descritto nell'edizione precedente del 29 agosto (vedi 7b): il completamento dell'autopsia (con i risultati che verranno resi disponibili più tardi) e il rinvio del funerale, ma poi introduce un tentativo di scagionare le responsabilità della polizia da parte di
un imprenditore teatrale, che vedremo poi chiamarsi Radice. Anche se il cronista del Corriere pare ansioso di alleggerire la posizione delle guardie, con il senno di poi sembra proprio abboccare a un tentativo di depistaggio da parte della Pubblica
Sicurezza. Impossibilitati a negare la presenza di ecchimosi, le autorità di P.S. in
combutta con Radice, attribuiscono la paternità delle percosse al fratello. Anche se, in ogni caso, la
linea di difesa originale degli agenti non era: "non l'abbiamo toccata",
ma "è morta perché si è avvelenata".
Va detto, a onor del vero, che anche in occasione del "duello" tra Angelo Bocchiola ed Edmondo Andressi, avvenuto quasi un anno prima, erano stati riportati maltrattamenti di quest'ultimo verso la sorella minore.
Di questo tentativo del
Radice darà conto pure la Stampa, un paio di giorni dopo.
11 b) La Stampa, domenica 31
agosto - pag.5
La “Rosetta,, è morta
avvelenata
Milano, 30, sera.
Il responso dei periti
nell'esame necroscopico, sentenziò che la morte dell'Andressi detta
« Rosetta » fu dovuto ad avvelenamento. Esclude la concausa del
maltrattamenti da parte degli agenti, avendo riscontrato soltanto due
abrasioni al braccio destro, ma lievissime.
Era stato pubblicato, e
poi venne smentito, che la povera Elvira Andressi, sere sono in un
caffè del centro avrebbe dichiarato di aver subito maltrattamenti da
parte di un fratello, ed avrebbe anche mostrato, delle lividure ad
alcuni frequentatori del caffè stesso.
A questo proposito stamane si
è presentato spontaneamente, al vice-questore cav. uff. Troise, il
signor Gerolamo Radice, per confermare quella notizia e per essere
assunto come testimonio.
Della deposizione del signor Radice, il
vice-questore stese verbale.
Tiene il punto invece il
giornalista dell'Avanti! Di Radice si occuperà - stroncandolo - nell'articolo del 30 agosto (vedi più sotto). Ma intanto leggiamo cosa scrive nel pezzo del 29 agosto (ottenuto grazie alla cortesia dell'Istituto Salvemini).
11 c) Avanti!, venerdì 29 agosto 1913 –
pag. 4
Dopo la morte della
“Rosetta”
L’intervento
dell’autorità giudiziaria
Il racconto da noi
riportato delle circostanze nelle quali si sono svolti gli incidenti
di martedì sera in largo Carrobbio e in piazza Vetra fra gli agenti
della squadra mobile ed un gruppo di giovanotti e di donne, fra le
quali era la canzonettista Elvira Andressi, conosciuta col nome di
Rosetta morta l’altro giorno all’Ospedale Maggiore – ha destato
nella cittadinanza una grande impressione.
La improvvisa morte della
Rosetta – che secondo le stesse affermazioni della questura aveva
tentato di suicidarsi ingoiando tre pastiglie di sublimato due delle
quali subito sputate – non poteva non apparire strana e misteriosa:
invocavamo su questo triste episodio luce completa tanto più che a lo
stesso funzionario di polizia incaricato delle indagini, il delegato De Benedetti, il
tentativo di suicidio non era apparso che una simulazione. Egli
infatti, la mattina di mercoledì, interrogato da alcuni giornalisti
aveva espresso questo suo convincimento, aggiungendo che la donna
aveva subito sputato le pastiglie di sublimato: versione questa che
fu anche riportata da un giornale del pomeriggio.
Però, qualche ora dopo,
alle 11.30 la Rosetta cessava di vivere.
A questa circostanza, certamente degna di rilievo, veniva ad aggiungersi il vivo fermento sorto nel popolare quartiere di Porta Ticinese, e specialmente fra gli abitanti della via Vetraschi, molti dei quali asserivano di aver assistito agli episodi di violenza svoltisi durante la notte di martedì.
Fu appunto seguendo le precise indicazioni dei testimoni oculari che noi potemmo ricostruire i gravi incidenti di piazza Carrobbio e quelli ancor più gravi di piazza Vetra. Da ogni parte ci veniva affermato che la Rosetta era stata percossa e malmenata dagli agenti: i particolari delle scene di violenza ci venivano precisati, con una esattezza impressionante.
Di contro non vi erano che le monche informazioni fornite dalla questura; che la morte imprevedibile della giovane canzonettista.
La sua misera fine era per tutti una sorpresa: noi ritenemmo che l'autorità giudiziaria avesse il dovere di chiarire i punti che nel confronto tra la versione dei testimoni, e quella degli agenti risultavano oscuri.
E non ci eravamo ingannati: dopo la nostra pubblicazione l'intervento dell'autorità giudiziaria – nella persona del giudice istruttore Banzi – fu immediato. Si dispose per la pronta autopsia del cadavere. Dal canto suo il questore Cosentino affidava al vice-questore Troise, un'inchiesta.
Noi attendiamo, quindi, che dalla istruttoria in corso, la verità, qualunque essa sia, possa farsi strada: che essa valga a precisare – se ve ne sono – le responsabilità; a chiarire, in ogni caso con la parola serena della scienza e della giustizia il mistero della repentina morte della Rosetta.
I funerali privati
Ieri alle 16 del pomeriggio avrebbero dovuto aver luogo i funerali della sciagurata canzonettista.
La famiglia aveva già disposto il trasporto funebre della poveretta: erano anche giunte delle corone di fiori. Ma, verso le ore 12, i parenti della morta furono avvertiti che avendo l'autorità giudiziaria disposto perché venisse eseguita una perizia necroscopica, i funerali non avrebbero potuto aver luogo che oggi, partendo dal Cimitero Monumentale, dove il cadavere sarebbe stato trasportato.
Però, fin dalle ore 15 il cortile dell'Ospedale cominciò ad affollarsi di conoscenti della Rosetta ai quali il contrordine non era stato comunicato. Giunse anche la musica « Giuseppe Garibaldi » che avrebbe dovuto accompagnare il numeroso corteo.
La folla non voleva credere, in sulle prime, che i funerali fossero stati rimandati e nel vasto cortile i commenti si incrociavano. Sopraggiunse da San Fedele un drappello di agenti della squadra mobile, per sgombrare il cortile. Ma la folla continuò a stazionare nella piazza fino alle ore 16.15 [probabile, poco leggibile n.d.r.].
Il racconto di un muratore
Poiché le nostre indagini non si sono arrestate ieri, e poiché nuovi particolari ci risultano dagli interrogatori delle persone che hanno assistito agli avvenimenti di martedì sera, li riferiamo obiettivamente.
Il muratore Rinaldo [Battioli? Bottioli? poco leggibile n.d.r.] di anni 20, abitante in via Vetraschi 3, ci ha fatto il seguente racconto:
« Rincasavo verso il tocco. Giunto in Corso Ticinese mi fermai a parlare con due amici, quando improvvisamente dal Largo Carrobbio udimmo le voci e le grida provocate dalla prima colluttazione. Ed allora accorsi, per vedere di che si trattava; ma giunto al Largo Carrobbio vidi gli agenti che tentavano di far montare su una vettura due donne, mentre la Rosetta era distesa al suolo, quasi svenuta, fra le zampe del cavallo. Il fatto mi impressionò: se per caso il cavallo si fosse messo in moto la donna, alla quale gli agenti tiravano dei calci, sarebbe stata investita dalle ruote. Mi avvicinai, per
avvertire del pericolo: ma fui trattato male:
– Va via tu: noi siamo la polizia !
Insistetti. Soccorsi, con
alcuni signori usciti dal Bar Canetta, la Andressi che a stento si
reggeva in piedi: e la accompagnammo, sfinita, verso il Corso
Ticinese, dove incontrammo il fratello della Rosetta con alcuni altri
uomini ai quali affidammo la donna.
Continuai per la mia
strada: ma in via Vetraschi, 3, mentre ero per aprire il portello
della mia casa fui raggiunto da sei agenti in borghese che mi
agguantarono. Invano protestai: ero incensurato – mostrai il
congedo militare e la fedina penale – e non ero intervenuto che a
fin di bene. Fui accompagnato a San Fedele e chiuso in guardina –
non senza essere stato insultato dagli agenti. Non venni rimesso in
libertà che il mercoledì alle ore 17, per i pianti e le preghiere
della mia povera mamma!».
L’agonia
La sorella della Rosetta,
per nome Maria ci ha riferito altri particolari sulle ultime ore
della disgraziata. Per tre volte ella aveva tentato di interrogare la
Andressi e gli agenti di piantone l’avevano invitata a smetterla, con
un… pietoso pretesto:
– Non vedete che sta
male!!
La Rosetta avrebbe detto
alla Maria che non poteva raccontarle tutto quello che le avevano
fatto: disse di temere che una volta guarita, la perseguitassero. Le
sue ultime disperate grida furono:
– Non voglio morire! Non
voglio morire!
Una donna che aveva
accompagnata la Maria all’Ospedale, certa Vittoria Comini, abitante
in via Vetraschi, 30, asserisce di essere riuscita a scoprire a metà
il cadavere della Rosetta: esso presentava una ecchimosi sotto la
mascella sinistra che la Comini afferma prodotta da un calcio; una
lunga lividura sulla mammella sinistra era il segno tangibile –
secondo la Comini – della piattonata ricevuta dalla Rosetta:
inoltre una larga ecchimosi si presentava sullo stomaco e le mani
erano visibilmente graffiate.
Il riserbo dell'autorità giudiziaria
Ieri pomeriggio, poco dopo le ore 16, ebbe luogo la perizia necroscopica della Elvira Andressi, eseguita dal perito dottor Saverio De Dominicis alla presenza del giudice istruttore Banzi e di un cancelliere. La autopsia è durata oltre due ore ed è stata a quanto si afferma, minuziosa. Ma sul risultato di essa si mantiene il più assoluto riserbo.
Nulla è stato possibile conoscere.
Tuttavia noi pensiamo che l'autorità giudiziaria si debba proporre di risolvere vari quesiti:
1. Anche ammesso che la Rosetta avesse bevuto del fernet, come ora si afferma avrebbe questo contribuito veramente a sciogliere il sublimato e a renderlo per conseguenza più facilmente assorbibile? La domanda ha la sua importanza se si considera che lo stomaco non è un recipiente chiuso e che perciò quando fu inghiottito il sublimato evidentemente il fernet era stato giù assorbito e l'alcool in esso contenuto non poteva più esercitare quell'azione che potrebbe fino a un certo punto spiegare la troppo rapida morte della disgraziata.
2. Anche ammesso che l'azione dell'alcool abbia diluito il sublimato inghiottito era però questo in quantità tale da determinare la morte in poche ore? Occorre tener presente che – secondo la testimonianza di uno degli arrestati, rilasciato il giorno dopo, la Rosetta non possedeva che cinque pastiglie di sublimato, due delle quali le aveva gettate per terra — mentre delle altre tre inghiottite, secondo le stesse [saniamo qui un'inversione di composizione dei blocchi tipografici n.d.r.] affermazioni della questura ne aveva rigettate due.
3. L'essere state due pastiglie rigettate interamente smentirebbe in modo assoluto l'azione dissolvitrice dell'alcool.
4. E questo quarto quesito ci sembra il più interessante: presenta il cadavere tracce dei maltrattamenti e delle piattonate – che data la larga prova testimoniale nessuno potrà smentire – ricevute dalla Rosetta? E se sì, quanto questi maltrattamenti hanno potuto contribuire alla rapida fine della ragazza, mentre contemporaneamente agiva il sublimato?
Come procede l'inchiesta
in Questura
Ieri, dunque, ha avuto cominciamento una nuova inchiesta in questura affidata al solito cav. Troise il quale è destinato da che sta a Milano a passare tutto il suo tempo nel fare delle inchieste. Ma questa volta non riusciamo a spiegarcene gli scopi: come mai la polizia, mentre è aperta una istruttoria giudiziaria, si sovrappone alla autorità inquirente, predisponendo degli interrogatori e delle deposizioni che, per il fatto stesso di essere ordinate dalla questura non potranno non apparire un tentativo di intimidazione?
Ieri il cav. Troise ha interrogato tutti gli agenti che hanno partecipato agli incidenti di martedì notte e tutti — secondo le informazioni di qualche giornale — concordemente affermano di non avere maltrattata la donna.
Ma l'inchiesta e lo apprendemmo subito, non è soltanto interna: infatti fin dalle prime ore del mattino numerosi agenti in borghese si aggiravano per via Vetraschi, allo scopo di avvertire gli esercenti e tutti coloro che avevano assistito ai fatti da noi narrati di... non riferire che ciò che avevano visto: vale a dire, quello che agli agenti farebbe comodo. Le persone — e potremmo indicarne qualcuna — che dovranno essere interrogate dal vice questore Troise, prima ancora di ricevere l'invito della questura erano state avvertite da qualche agente. Il che dimostra come questa nuova inchiesta non sia che una nuova turlupinatura: si limiterà la polizia a interrogare le persone indicate dagli stessi agenti? Comodo sistema, invero, per giungere ad un'auto-assoluzione. Ma, in ogni modo, noi pensiamo che in questa faccenda la questura non c'entri affatto: ormai le indagini sono state iniziate dall'autorità giudiziaria e ad essa spetta il diritto – ed incombe il dovere – di procedere agli interrogatori dei testimoni i quali non devono – e diciamolo altamente – subire intimidazioni di sorta. Siano pure essi degli esercenti ai quali stia a cuore la licenza di esercizio...
Ieri troppi agenti in borghese sono stati segnalati in via Vetraschi...
La versione
della “Stampa„ di Torino
La Stampa pubblica particolari inviatigli dal suo corrispondente milanese che confermano, in molti punti, la nostra versione. Riproduciamo integralmente:
[quanto segue è una riproduzione - con la correzione di almeno un refuso - Carrobio - di un ampio brano dell'articolo della Stampa del 29 agosto 1913, già pubblicato qui al punto 7 c) n.d.r.]
« Per conto mio ho parlato con un testimone, non sospetto per tenerezza verso la mala vita, che giunse in Carrobbio quando due guardie erano alle prese con la squadra di donne della malavita, fra le quali vi era l'Andressi, la quale diceva che si era trovata in quel luogo per una pura combinazione ed era uscita di casa per andare dalla sorella che sta in piazza Vetra a portarle un «fernet» perchè si sentiva male. Si trovò a passare per il Carrobbio al momento in cui le due guardie intervennero per imporre la fine degli schiamazzi che faceva un gruppo di giovanotti. L'Andressi, che è molto nota in quei paraggi, particolarmente a tutti gli abitanti perchè fino a qualche anno fa vi aveva abitato, si fermò e pare parteggiasse per le sue antiche conoscenze.
Il fatto è che, mentre gli uomini riuscivano a svignarsela, il gruppo delle donne tenne testa alle due guardie. Avvenne infatti una violenta colluttazione, durante la quale le guardie estrassero le daghe e cominciarono a dispensare piattonate a destra ed a sinistra. Pare che l'Andressi in questo momento sia rimasta colpita da una piattonata al petto. Due donne venivano arrestate da una delle guardie e caricate sopra una vettura, mentre l'altra guardia tentava far salire in carrozza l'Andressi. Questa si oppose e urlando, si gettò a terra, quasi sotto le zampe del cavallo, nè vi fu modo di farla salire. Fu abbandonata a sè stessa e le guardie si avvicinarono alle altre arrestate, gridando alla Andressi: « Non dubitare, che non ci scappi! ».
Il testimonio oculare giunse sul luogo durante questo ultimo episodio, e vide l'Andressi che era in uno stato compassionevole. Si alzò, ma camminava a stento, e proseguì la sua strada barcollando e appoggiandosi al muro. Del fatto veniva avvisata una pattuglia di agenti della squadra mobile, che giunse a Carrobbio quando non c'era più nessuno. La pattuglia si divise in due parti: una andò giù per il corso Ticinese, l'altra per via San Vito, con lo scopo di sbucare contemporaneamente dai due lati della via Vetraschi. Giunse, prima la squadra che percorse il corso Ticinese, e sorprese un gruppo di uomini e di donne in piazza Vetra, che discutevano animatamente. Nel mezzo vi era la Andressi, che raccontava l'episodio di Carrobbio.
Il gruppo era a pochi passi di distanza dalla casa della sorella dell'Andressi. Le guardie riconobbero subito che razza di gente era quella colà radunata. Nacque un'altra violenta colluttazione, durante la quale le guardie estrassero le rivoltelle. La colluttazione fu senza cerimonie da ambo le parti: vi furono pugni e calci e percosse di ogni genere, e l'Andressi rimase di nuovo investita. Furono fatti parecchi arresti, e l'Andressi questa volta fu arrestata e condotta verso Carrobbio per farla salire in vettura.
Al momento in cui fu afferrata, fu vista alzare il braccio e ingoiare qualche cosa.
Dal gruppo dei suoi amici partirono subito grida «Si è avvelenata! si è avvelenata! ». Alle quali la donna rispose, gridando: « Dio mio ho preso il veleno! »
Giunta a Carrobbio, la donna fu fatta salire sopra una carrozza e accompagnata alla Guardia medica di via Cappellari ».
E venne il giorno dei
funerali della povera Rosetta, mentre le indagini proseguono, a loro
modo.
11 d) Corriere del Pomeriggio,
sabato 30 agosto 1913 - pag. 5
I funerali dell'Andressi
Il trasporto funebre
dell'infelice canzonettista Elvira Andressi, che non ha potuto aver
luogo nel pomeriggio di giovedì, come già è stato detto, si
effettuò invece ieri alle ore 16.
Il corteo mosse, a
quell'ora, dalla camera mortuaria del cimitero Monumentale e per
viale Volta, per le vie Bramante e Giannone si diresse alla chiesa
della Trinità. Il carro, un semplice carro di terza classe, era
adornato di corone della famiglia, degli amici e conoscenti. Lo
seguivano i parenti tutti e grande pietà muoveva la vecchia madre
che, tutta vestita a lutto, piangeva desolatamente la misera fine
della giovane figlia. Venivano poi moltissimi conoscenti della
defunta, le amiche intime di lei, in gran numero e non poca gente del
quartiere ove abita la famiglia e dove avvennero i fatti che
condussero a morte la giovane canzonettista. In coda al corteo
v'erano parecchie carrozze pubbliche recanti corone.
Particolare curioso: una
banda - la Giuseppe Garibaldi - eseguiva inni popolari tra la
sorpresa del pubblico.
Dopo le funzioni
religiose nella chiesa della Trinità, il corteo ritornò sul
piazzale del Monumentale per poi proseguire per il cimitero di
Musocco, dove più tardi venne tumulata la salma. Al cimitero un
fratello della morta, ha pronunciato parole di compianto per la
sorella ed ha ringraziato tutti i parenti che vollero rendere
l'ultimo tributo di omaggio alla poveretta.
Molto commovente e
curioso l'intervento della banda Giuseppe Garibaldi! Indifferenti alla commozione,
però, le forze dell'ordine effettuano una retata dopo il funerale,
in cui viene preso anche il fratello Alessandro, che dà -
letteralmente "fuori di matto". Di questo parla anche il resoconto dell'Avanti! sui funerali che è ancora più dettagliato.
11 e) Avanti!, sabato 30 agosto 1913 - pag.4
Dopo la morte della “Rosetta”
Mentre si attende il responso dell'autorità giudiziaria
Un fratello della morta, colpito da alienazione mentale, è condotto all'Astanteria
I funerali
Quando, poco prima delle ore 16, giungevano nel piazzale del Cimitero Monumentale, una folla di popolani e di popolane è già raccolta davanti alla Morgue: una folla caratteristica ma silenziosa che appare vinta da una commozione sincera e profonda. I parenti della Rosetta sono stati ammessi a visitare per l'ultima volta la salma della sciagurata. Il volto della Rosetta è composto e sereno: quasi non rivela il pallone della morte. Quando i parenti, fra i quali è la vecchia madre, escono dalla sala mortuaria, si odono grida di dolore, singulti disperati.
Era lì, era lì, con i colori della sua giovinezza ancora fiorente, dicono coloro che l'han vista e quasi si affaccia, nelle semplici anime doloranti, il sospetto che la toilette della salma sia stata preparata.
Sul carro sono quattro corone di fiori, con nastri bianchi sui quali sono altrettante dediche.
Alle ore 16 precise il corteo si mette in moto, preceduto dalla musica Giuseppe Garibaldi. Seguono, particolare notevole, i preti cristiani che hanno assolto la morta anche dalla colpa di aver tentato di troncare la sua vita: in essi era, dunque, la convinzione che la sciagurata non volesse morire.
Il modesto carro funebre seguito dalla madre, dai fratelli, dalla sorella della morta e da oltre duecento persone – tutto il vicinato – si avvia alla chiesetta della Trinità.
Durante il percorso ai balconi ed alle finestre vi sono numerosi curiosi : e per la strada la gente si ferma a compiangere la sorte della giovane donna. Sull'entrata della rimessa di Porta Volta, si affollano molti tranvieri e molti operai della Edison.
Dopo la funzione religiosa il corteo procede per la stazione dei [illeggibile n.d.r.] per il trasporto della salma a Musocco.
Ma il corteo non si scioglie: la bara è trasportata in un breve recinto destinato ai discorsi : e tutti la seguono.
Vi sono alcuni minuti di indecisione: chi parla? Ma un antico pregiudizio popolare sembra vietare agli uomini di parlare sulla bara di una ragazza.
Gli uomini addetti al trasporto funebre si impazientiscono di questa breve attesa e tentano di portar via la bara: non è bello, non è pietoso.
– Aveva venti anni! – Esclama con accento veneto una donna – E' morta a venti anni! Non sentite il nostro dolore ? Aspettate, dunque, prima di portarcela via… Abbiamo aspettato tanto tempo anche noi!
– Macché. Gli inservienti invocano l'autorità di un vigile urbano, il quale, a onor del vero, interviene, ma entrato nel recinto e compreso che cosa si voglia da lui, si allontana in silenzio.
Ed allora si odono poche parole tronche, strozzate dai singhiozzi, del fratello della morta. Un brivido di commozione invade la folla.
– Mamma – chiede una bambina che accompagnata da una signora era entrata nel recinto per curiosare – l'avevano bastonata?…
E vi è nella sua voce infantile, come un accento di sorpresa e di sgomento.
Il gruppo dei parenti si allontana, mentre la folla gli apre il varco aprendosi in due silenziose colonne.
L'autorità giudiziaria mantiene ancora il più assoluto riserbo sui risultati della perizia necroscopica.
Il mancato tentativo
di una nuova versione.
I giornali di ieri mattina hanno pubblicato una versione nuova e grave delle ecchimosi che sarebbero state riscontrate sulla Rosetta.
Il signor Gerolamo Radice che non sa trovare modo migliore di spendere i propri quattrini, fuor di quello di frequentare i poliziotti di mestiere, ha raccontato, come se anch'egli fosse un questurino autentico, che la Rosetta già da domenica sera recava sul corpo varie ecchimosi prodottele dalle busse di un proprio fratello.
Il Radice assicurava che le ecchimosi erano state constatate de visu oltre che da lui da altri quattro rispettabili signori che non meritano di essere nominati in simile faccenda e che telefonicamente ci mandarono subito le loro smentite.
I quattro testimoni invocati a torto dal Radice furono in seguito interrogati da noi, ed essi concordemente ci ripeterono:.
1. E' assolutamente falso che la Rosetta abbiamo mostrato, in presenza del Radice o di altri, le lividure in questione.
2. Le lividure non potevano quanto mai essere visibili la domenica sera, dato che il lunedì la Rosetta ha cantato seminuda al San Martino senza la minima ecchimosi che le segnasse la pelle.
3. Uno solo dei signori sopracitati ha riferito che nel colloquio avvenuto nella strada fuori di un noto caffè – l'Hagy – la Rosetta ebbe a lamentare, ma genericamente, qualche maltrattamento in famiglia.
4. ed ultimo. Il Radice ha dunque tratto dal nulla un episodio che doveva secondo la ingenua confessione di un giornale del mattino distruggere tutti i nostri dubbi e creare un alibi alla regia Questura, nel senso di dimostrare che le ecchimosi ormai innegabili, e dallo stesso vicequestore ammesse e attribuite in via di ipotesi alla caduta e alle convulsioni della Rosetta nel momento del suo arresto – erano preesistenti e provocate dalle percosse di un fratello della vittima.
Siamo invece a questo: il lunedì sera la Rosetta ha cantato al San Martino: e vista sul palcoscenico mentre si svestiva non presentò contusioni nè lividure di sorta.
La famiglia dal canto suo fa notare che la Rosetta non poteva subire maltrattamenti in famiglia per il buon motivo che abitava per conto suo in via Gaudenzio Ferrari, e che soltanto in questi ultimi giorni si era recata a trovare un fratello, appunto perché era trattata da lui senza durezza.
In conclusione: Radice ha invocato circostanze inesistenti: ha tirato ingiustamente in ballo persone rispettabili, ha denunciato il fratello di una morta come il suo torturatore: è stato smentito per quasi tutta la sua versione dai testi invocati in causa, e perciò essendo risultato definitivamente un pessimo informatore, dovrebbe, anche secondo la legge e il regolamento di P.S. non essere più tollerato dei funzionari di P.S. che invece assecondando la sua pericolosa mania di poliziotto dilettante, se lo prendono insieme anche per delicatissime indagini.
L'ultima smentita
Questa poi non ce la aspettavamo.
Quello dei quattro signori che ci giurava alle ore dieci di sera di aver sentito personalmente la Rosetta lamentarsi dei maltrattamenti del fratello: alle ore due di notte ci ha invece assicurato d'aver ricevuto nessuna confessione del genere. Chi invece avrebbe sentito l'accusa è un altro… che dichiara sua volta d'aver sentito niente.
La “Rosetta„ voleva parlare
Il direttore del San Martino – il teatro di varietà dove la povera Rosetta aveva cantato fino a lunedì sera - ci ha raccontato che mercoledì mattina venne avvertito che la Rosetta aveva espresso il desiderio di parlargli: questo poche ore prima di morire. Ella avrebbe detto di voler fare delle confidenze al direttore del San Martino che le era stato sempre prodigo di buoni e disinteressati consigli. Ma il nostro interlocutore, recatosi all'Ospedale, chiese invano di poter parlare con la disgraziata: vi si oppose, se non altro, la burocrazia, per quanto il direttore del San Martino – al quale la Rosetta aveva spesso riferito di essere stata presa di mira dagli agenti – avvertisse che si trattava della volontà di una morente.
Egli non poté vederla che morta.
La deposizione di un “brumista„
Abbiamo raccolta ieri, in presenza di testimoni, la deposizione del brumista Quirino Ziliani, abitante in via Arena 22, il quale ha assistito all'ultima fase dell'episodio di piazza Vetra.
Verso le 2.35 [non chiaramente leggibile n.d.r.] di martedì notte, avendo terminato il mio lavoro giungevo da Porta Venezia diretto alla rimessa in via Lecchi.
Ero giunto quasi all'altezza della via Vetra, quando udii un clamore di voci e poco dopo vidi sbucare in corso Ticinese un gruppo di agenti con tre arrestati. La Rosetta li rincorreva chiamando per nome il fratello Arturo e invocandone la liberazione.
La ragazza si avvicinò agli agenti, afferrandole uno per il braccio, e gridando:
– Lasciatelo! Non ha fatto niente. Vigliacchi: è uno zoppo.
A questo punto un agente - che potrei riconoscere - afferrò la donna e la spinse con violenza contro il muro, facendola battere con la spalla sinistra, mentre l'agente Musti gridava:
– C'è oltraggio! Pigliala.
L'agente che aveva dato l'urtone alla Rosetta, alzò il bastone e colpì la ragazza al petto obliquamente e poi le diede dei pugni al petto e al ventre mentre la disgraziata emettendo dei gemiti soffocati cadde, ripiegandosi sul fianco sinistro sfinita. Tentò invano di rialzarsi: altri pugni la raggiunsero.
Gli agenti, dopo un momento di indecisione durante il quale scambiarono poche parole per stabilire dove dovevano portarla, se all'Ospedale o a San Fedele, si rivolsero a me dicendomi di trasportare la Rosetta: io mi rifiutai recisamente!
– Sono modi da cosacchi i vostri, non ho il coraggio di portare questa disgraziata a San Fedele.
Allora gli agenti avendo insistito invano, minacciando di farmi togliere la licenza, chiamarono una vettura che era di posteggio al Largo Carrobbio.
L'Autorità giudiziaria – e non la questura che non ha alcun diritto di procedere, come sta facendo, il giudice istruttore – potrà vagliare le circostanze riferite dal Ziliani e che noi abbiamo fedelmente riportate. Essa starebbero a dimostrare che la Rosetta anche prima del tentato suicidio, era in condizioni pietose, tali da rendere necessario il suo trasporto in vettura.
E' da notare che anche dopo il primo episodio di Largo Carrobbio dove secondo le stesse narrazioni della Stampa di Torino e del Resto del Carlino di Bologna, ella avrebbe ricevuto una piattonata al petto – le sue condizioni erano di estrema debolezza.
Quel che ha visto un cameriere
Il cameriere Mario Gualdi abitante in piazza Vetra 16 ed occupato presso il bar Dante all'angolo della via omonima e di via Meravigli, ha riferito ad un nostro cronista che, la notte di martedì, mentre rincasava, giunto in prossimità del Carrobbio, credè udire un colpo di rivoltella. Avanzando, assistè per quanto a distanza, alla colluttazione: gli agenti avevano sguainate le daghe. Egli vide la Rosetta a cadere al suolo. Venne soccorsa da alcuni cittadini.
Riflessi giudiziari e giuridici
I precedenti giudiziari della Rosetta sono i seguenti e possono servire per una precisa indagine dell'Autorità competente.
Nel mese scorso era tenuto in Tribunale il processo contro i presunti responsabili, correi e ricettatori del furto Archenti.
In quella occasione la Rosetta figurava come puntata di correità nel furto.
La ragazza poté invece dimostrare che lucrando più che a sufficienza per sè, poteva dare soldi all'amante Orlandi, piuttosto che concorrere con lui in un'impresa criminosa.
La guardia Musti sentita come teste riferì invece conto la imputata, con il risultato di non essere creduta dal tribunale che infatti assolse la Rosetta da ogni imputazione.
Ma questo è già noto. Quello che invece non è stato ancora pubblicato è che durante le udienze movimentatissime del processo in questione, la guardia Musti da accusatrice diventò accusata:
– Lei – gridò la Rosetta – è appunto quegli che due giorni or sono trovandomi in un Caffè mi ha minacciata di gravi guai per questo dibattimento. Lei è appunto quel… signore che avrebbe voluto condurre senza perché in guardina… Lei insomma mi ha minacciata tutte le volte che mai incontrata.
L'agente Musti sentì… filosoficamente la invettiva della imputata. Non smentì di avere minacciata la Rosetta in un caffè: assicurò soltanto che l'aveva richiamata all'ordine… per misure di pubblica sicurezza.
Un momento, però… Per comprendere bene l'importanza di questo episodio bisogna risalire a certe e brillanti operazione della Polizia. Un anno fa il commissario De Cesare denunciava all'Autorità Giudiziaria una cinquantina di persone per associazione a delinquere e per reati singoli.
Il Giudice Istruttore intuendo che si trattava di una montatura poliziesca assolse tutti gli imputati dall'accusa di associazione a delinquere e ritenne soltanto responsabili dei fatti individuali questo o quegli dei denunciati.
Il primo scacco della Polizia venne seguito da altri mediocri risultanze. Innanzi tutto, in Tribunale, la Questura ebbe bisogno di far scappare i propri confidenti perché diventando essi irreperibili se ne potesse leggere la deposizione scritta senza il controllo orale. Ciò avvenne per tutti i processi, a dimostrazione di quello che è il sistema d'accusa della Questura più discussa del Regno, che prima assume testimonianze e poi toglie di mezzo il confronto pubblico – confronto pubblico che i confidenti non potrebbero subire – pur di ottenere una sentenza di condanna che la salvi, magari ai danni di innocenti, di tutti i mancati arresti dei ladri e degli omicidi non rintracciati.
Ma come abbiamo detto, il Tribunale dinanzi a ben scarse prove: dinanzi a procedimenti curiosi di istruttoria per cui l'agente Musti poteva fra l'altro vestirsi da ladro ed entrare in guardina insieme a un muto… per strappargli inverosimili confidenze, visto specialmente che la Rosetta e quattro altri dei sette imputati niente avevano a che vedere con il furto Archenti, li assolse.
***
Quest'episodio di giustizia ha naturalmente guastato le uova nel paniere dei bravi poliziotti che avrebbero voluto con la denuncia dei cinquanta associati a delinquere e poi con la condanna dei singoli ladri fare ottima carriera. Invece la istruttoria prima, e le sentenze poi diminuirono del novanta per cento la brillante operazione poliziesca.
L'agente Musti è stato secondo la ultima inchiesta trasferito da Milano a Genova: il Musti medesimo tornato a Milano per il processo ha voluto dare una prova – nel processo non parliamo d'altro – del suo zelo per riuscire a rimanere qui: il medesimo Musti è l'agente che ha arrestato la Rosetta.
***
Non vogliamo anticipare il giudizio dei magistrati. A noi preme soltanto di precisare questi tre punti:
1. L'Autorità di polizia ha il diritto di arrestare chiunque violi la legge. Non ha il diritto di picchiare un detenuto, se non per legittima difesa. Ed è intuitivo che una ragazza di 19 anni non poteva mettere in pericolo la incolumità personale delle guardie così da legittimare le loro percosse.
2. Vi è reato anche per chi spinga altri al suicidio con maltrattamenti, e qui fintanto che la perizia medica le escluda completamente, noi abbiamo il diritto di credere, secondo le numerose testimonianze, che percosse vi siano state.
3. Dato che nemmeno la forma di imputazione più sopra ricordata possa sussistere, v'è per lo meno l'altro reato di eccesso di potere consumato dalle guardie. Dato cioè che la Rosetta sia morta esclusivamente per veleno, le busse da essa ricevuta rimangono. E portano alla necessità dell'intervento della Procura del Re.
I commenti
del 'Resto del Carlino' di Bologna
[Così come il giorno precedente, il cronista dell'Avanti! riporta le testimonianze raccolte da altri giornali che confermano la sua tesi: il 29 agosto era stata ripresa La Stampa, mentre qui, il 30 agosto, viene ripreso Il Resto del Carlino, ma di fatto i due racconti sono in larga parte sovrapponibili, sembra addirittura la stessa mano: è possibile che il corrispondente fosse lo stesso. n.d.r.]
Il corrispondente milanese del giornale il Resto del Carlino di Bologna ha voluto aggiungere informazioni particolareggiate sul grave fatto della repentina morte della povera Elvira Andressi e dichiara che tutto concorre a far pensare che la morte della Andressi sia da attribuire ad altra causa che non all'avvelenamento. Fin dove giunga la responsabilità delle guardie di P.S. è difficile stabilire: ma responsabilità da parte loro dovrebbero esservene.
Riportando la versione di un testimonio non sospetto per tenerezza verso la malavita, il corrispondente del Resto del Carlino dice, fra l'altro:
« Pare che la Andressi fino da quel momento (durante cioè il primo episodio di Largo Carrobbio) sia rimasta gravemente colpita da una forte piattonata al petto. Due donne intanto venivano arrestate da una delle guardie e caricate sopra una vettura mentre l'altra guardia tentava di far salire in carrozza anche la Andressi. Questa si oppose e urlando si gettò a terra quasi sotto le zampe del cavallo né vi fu modo di farla salire.
Allora fu abbandonata a se stessa e le due guardie si allontanarono con le altre due arrestate, gridando alla Andressi:
– Non dubitare che non ci scappi!
L'istesso testimone oculare ha così raccontato, e il giornale bolognese riferisce, il secondo episodio, quello nel quale le due guardie avrebbero messa in atto la minaccia:
- Non dubitare che non ci scappi!
« un gruppo di uomini e di donne in piazza Vetra discuteva animatamente. Nel mezzo c'era la Andressi che raccontava l'episodio del Carrobbio, a pochi passi dalla casa della sorella. Le guardie che riconobbero subito che razza di gente a quella colà radunata, investirono il gruppo. Ne nacque una nuova violenta colluttazione durante la quale le guardie estrassero perfino le rivoltelle. La colluttazione fu senza cerimonie da entrambe le parti con larga distribuzione di pugni, calci e percosse di ogni genere ».
Un fratello della “Rosetta„
dà segni di pazzia
Una impressionante notizia si è sparsa questa notte verso le ore tre.
Un pattuglione di agenti della III Sezione, di via Vittoria, aveva durante la notte eseguito diversi arresti nel rione di porta Ticinese e specialmente in via Vetraschi ed in piazza Vetra, dove si svolsero i noti incidenti di martedì sera. Perché si proceda a questi arresti da parte della Questura è facile intuire ed è sintomatico.
Ma uno degli arrestati, avendo dato segni palesi di alienazione mentale gridando: Rosetta! Rosetta! e in preda a cupa disperazione, tentando di graffiarsi e di ferirsi, gli agenti avevano avvertita la Assistenza Pubblica Milanese per farlo trasportare all'Astanteria.
Verso le tre ore infatti, l'automobile di soccorso accompagnava l'infelice a San Fedele, per ottenere il nulla osta del funzionario di notturna. Venne presentato un certificato medico, a firma del dottor Cavezzali, sul quale l'individuo era indicato per Alessandro Andrizzi, abitante in via Carlo I.
Mentre il delegato De Benedetti preparava il nulla osta, un gruppo di giornalisti circondò l'automobile dell'Assistenza Pubblica: e con grande sorpresa senti che l'infelice, fino a poco fa vinto da un torpore profondo, svegliandosi improvvisamente mormorava:
– Rosetta! Rosetta!
Nacque il sospetto che l'Andrizzi fosse un Andressi e che sul certificato il nome fosse stato sbagliato: era forse un fratello della infelice Rosetta. Per quante domande venissero rivolte al delegato De Benedetti non si poté venire a capo di nulla. Nè gli agenti della III Sez. che avevano accompagnato il demente vollero dare alcuna indicazione precisa. Soltanto i militi dell'Assistenza Pubblica confermarono il sospetto: l'arrestato che ora giaceva sulla barella in una crisi di follia, era proprio il fratello della sciagurata canzonettista.
Invano inviammo uno dei nostri cronisti alla sezione di via Vittoria: gli agenti avevano ordine di tacere.
Tuttavia potremmo apprendere che giunto all'Astanteria di via Lamarmora gli stessi agenti avevano confermato che l'infelice era proprio un fratello della Rosetta: Alessandro Andressi. Affermazione che ci consta essere provata da una ricevuta di vendita di una bicicletta, rinvenuta nelle tasche dell'infelice e sulle quali era appunto segnato il nome di Alessandro Andressi.
Ci risulta che il disgraziato presentava sulla regione toracica ferite lineari da taglio, ed abrasioni intrecciantisi tra loro e qualche contusione.
Egli è in uno stato stuporoso: ha gli occhi sbarrati nel vuoto e mormora ogni tanto: Rosetta! Rosetta!
Non risponde alle domande che gli vengono rivolte.
Sono proibiti i commenti...
Ieri sera in Piazza Duomo due agenti di P. S. trassero in arresto un individuo dimessamente vestito in quale commentava ad alta voce la morte della Rosetta. Condotto in questura il delegato [Mantica? - parzialmente illeggibile n.d.r.] assistito da un imberbe alunno-delegato, certo Lenzi, sentenziò che l'individuo identificato per Giovanni Gavardoni fu Carlo di anni 43, manovale, fosse rinchiuso senz'altro in guardina. Nè le rimostranze di alcuni cittadini valsero a far rilasciare l'arrestato.
E questo è lo sviluppo nell'edizione del pomeriggio del Corriere:
11 f) Corriere del Pomeriggio,
sabato 30 agosto 1913 - pag. 6
Il fratello della
Andressi arrestato
e preso da alienazione
mentale
Alla Questura di San
Fedele [in una edizione successiva il Corriere della Sera riporta che la scena
si è svolta invece "Nelle guardine della Sezione II di via della Signora" n.d.r.] è
avvenuta questa notte una scena drammatica che s'aggiunge a quelle
che si sono svolte intorno all'infelice canzonettista Elvira
Andressi, morta dopo la ribellione alle guardie alcune notti or sono.
Alle 3 si è vista,
infatti, arrivare una comitiva di arrestati con intorno numerose
guardie. Proveniva da porta Ticinese. Fra tali individui uno smaniava
ed emetteva lamenti: – Rosetta! Rosetta!
Costui venne visitato dal
dott. Cavezzali il quale lo interrogò: si chiamava Alessandro
Andressi, abitante in via Corio !
– Sei fratello della
canzonettista?
Ma egli continuava a
pronunciare una parola sola: – Rosetta !
Il sofferente fu poi
trasportato su una lettiga all'Assistenza Pubblica all'Astanteria di
via Lamarmora dove i medici lo trovarono in preda a sintomi di
alienazione mentale. Il giovane era stato preso dalla sua crisi
appena arrestato. Egli è veramente il fratello della canzonettista:
il suo stato è tuttora grave.
E infine arriva l'esito
dell'autopsia. "I periti hanno giudicato che la morte
dell'Andressi è dovuta unicamente all'azione del sublimato corrosivo
ingoiato dalla canzonettista a scopo suicida". Ma non raccontano
i dettagli relativi alle pastiglie, dicono soltanto che le lesioni
non sono significanti (l'articolo poi riporta ancora l'ipotesi del
Radice che siano state causate dal fratello) e poi si parla di una
fantomatica "grave malattia costituzionale, conseguenza
dell'esistenza sua depravata, tale da diminuire assai la resistenza
del suo organismo" - sarebbe interessante sentire cosa ne pensa
un medico legale dei giorni nostri). L'esito spiazza anche il cronista dell'Avanti! che contava di trovare qualche conferma alle sue ipotesi.
11 g) Avanti!, domenica 31 agosto 1913 - pag. 4
Intorno alla morte della “Rosetta”
Le prime risultanze
della perizia necroscopica
L'autorità giudiziaria, per bocca del giudice istruttore Banzi, dopo due giorni di assoluto mutismo ha comunicato ai giornali il risultato, niente affatto definitivo della perizia necroscopica eseguito sul cadavere della Rosetta dal dott. Saverio De Dominicis nel pomeriggio di mercoledì scorso.
Secondo il comunicato dell'autorità giudiziaria la morte sarebbe avvenuta per avvelenamento prodotto da sublimato corrosivo.
Il cadavere secondo le dichiarazioni del Banzi presentava abrasioni al gomito sinistro ed alla mano destra.
L'istruttoria dovrà accertarne le cause. Sono stati repertati alcuni frammenti delle visceri della morta per completare l'esame necroscopico. E, d'altra parte, sono stati posti ai periti numerosi quesiti per determinare, oltre l'azione del veleno, quali altri coefficienti possano eventualmente aver concorso a determinare la morte della disgraziata canzonettista.
Il dottor De Dominicis, da noi interpellato, si è limitato a smentirci la notizia che le visceri della Rosetta siano state completamente repertate per procedere ad un ulteriore esame chimico; ha ammesso che anche una sola pastiglia di sublimato possa aver prodotto l'avvelenamento; e ci ha infine dichiarato, a nostra richiesta, che la risposta data dall'autorità giudiziaria non è ancora definitiva, dovendosi attendere quelle che i periti daranno ai numerosi quesiti ad essi sottoposti, allo scopo di far luce completa sulla repentina morte della Andressi.
Per conto nostro — animati come eravamo e come siamo — da desiderio di serena giustizia, ci limitiamo per ora a prendere atto — a puro titolo di cronaca — di questa primissima fase della complessa istruttoria, riserbandoci, naturalmente ogni giudizio e compiacendoci che la stessa autorità giudiziaria abbia riconosciuta la legittimità delle nostre ipotesi alle quali non si potrà rispondere basandosi unicamente sui risultati della perizia necroscopica.
Non vi è però chi non comprenda la scarsezza dei dati forniti, per ora, dall'autorità giudiziaria.
A questo proposito è bene notare che per due giorni, dopo avvenuta l'autopsia, l'autorità ha taciuto quello che poteva, senz'altro, sembrare una risposta tranquillante.
Perché?
Si parla di abrasioni; e se ne cercano le origini. Eravamo noi dunque nel vero quanto affermavano, sorretti da una larga documentazione testimoniale, che la Rosetta era stata percossa dagli agenti?
Attraverso le indiscrezioni dell'autorità giudiziaria sì apprende che sono state riscontrale abrasioni al gomito sinistro. Ed allora ecco che trova piena conferma l'episodio narrato dal brumista Quirino Ziliani, abitante in via Arena, 22.
«A un certo punto, egli ha detto, un agente che potrei riconoscere, afferrò la donna e la spinse con violenza contro il muro, facendovela battere con la spalla sinistra».
E' ben chiaro che ella debba aver tentato di attutire la violenza dell'urto. producendosi la contusione al gomito.
Se la morte non avesse rapita la disgraziata, noi avremmo egualmente sostenuta la necessità di precisare le cause che potevano aver prodotte, sul corpo della giovane donna, le ecchimosi riscontrate prima dai parenti e poi dai medici fiscali.
Poichè affermiamo altamente che gli agenti di pubblica sicurezza non hanno il diritto di bastonare o di prendere a pugni gli arrestati.
E che questo sia un sistema, nessuno lo ignora: ricordiamo, per tutti, il caso del dottor Risi, arrestato in piazza Duomo e tanto malmenato da dover essere ricoverato nella infermeria del cellulare.
Un ultimo rilievo, per ora. L'episodio di piazza Vetra non fu generato da una ribellione agli agenti: e questo lo si dimostra col fatto che dei tre arrestati – tranne il fratello zoppo della Rosetta, – gli altri due (prima è vero delle nostre narrazioni!...) furono senz'altro rimessi in libertà pur essendo dei pregiudicati. Costoro sono proprio quelli che hanno assistito, già stretti fra le guardie, allo svolgersi dei fatti ed all'arresto della canzonettista.
Concludendo: l'autorità giudiziaria assicura di non aver terminato l'istruttoria per quanto riguarda la perizia necroscopica.
Non si parla ancora però, della istruttoria diretta a precisare come si siano svolti gli episodi di martedì notte; e non osiamo credere che questa parte di importanza capitale, la procura del re l'abbia affidata al questore Cosentino!
L'autorità non ha terminato il suo compito: ed anche noi, diciamolo subito, non abbiamo finito.
Il parere di un medico
Da un eminente medico riceviamo le seguenti importantissime considerazioni che avvalorano, con la serena parola della scienza, le nostre considerazioni e le nostre ipotesi. Le pubblichiamo integralmente:
Milano, 30 agosto 1913
Onorev. Direzione
Giornale l' « Avanti! »,
Giacchè constatiamo con soddisfazione come la vostra campagna perchè venga fatta luce completa sulla morte della canzonettista è davvero oltrechè coraggiosa, completa, crediamo a modesto contributo farvi pervenire le seguenti considerazioni di ordine medico:
1. E' a rigettarsi a priori la versione secondo cui la ragazza si producesse da sola ecchimosi e contusioni perchè colta da convulsioni, essendo esclusa in lei la presenza di costituzione isterica od epilettica.
2. Nella cedola d'accettazione della Sala tentati suicidi al punto interrogativo posto dal medico di guardia segue dichiarazione stesa dal dott. Medaglia che attribuisce la morte ad avvelenamento per subimato corrosivo; è però a chiedere: quando il dott. Medaglia ha visitata l'ammalata? Non certamente prima della visita mattutina (ore 8.30) quando già essa versava in condizioni gravi. Il quadro sintomatico d'un avvelenamento acuto da sublimato, così grave da portare in poche ore alla morte, deve necessariamente essere così appariscente da venire rilevato facilmente anche da un profano.
Ci furono o no vomiti biliari, scariche alvine, lesioni della mucosa orale e della gola, oltre alla sindrome soggettiva? Tutto questo non è stato rilevato o l'ammalata non ha avuto!
Noi pensiamo che ciò sia stato omesso perchè la paziente non presentò: una pastiglia dí sublimato del commercio (circa kg. 00 [sic] di bicloruro di mercurio) non è quantità sufficiente per produrre fenomeni così imponenti, tenendo conto che nel caso speciale è intervenuta una pronta lavatura gastrica. Tutt'al più l'esito letale in dannata ipotesi avrebbe potuto seguire a distanza di parecchi giorni come conseguenza di avvenute lesioni del rene.
3. Conviene anche notare che, per ragioni ovvie che qui si omettono, la Sala tentati suicidi è la meno ambita dai Sanitari dell'Ospedale Maggiore che vi compiono niente più dell'obbligatoria prestazione di servizio: le suore che vi sono addette non usano, si capisce, tenerezze ai poveri malati candidati dell'inferno.
4. Sorvolando sulla scelta dei periti giudiziari (dotti quanto si voglia, ma ambedue con veste di periti fiscali; l'uno essendo perito di fiducia dell'Autorità giudiziaria, l'altro medico delle Carceri) l'esito dell'opera loro quale trapela dalla versione che un giornale della sera s'affretta a dare, che siansi cioè trovate tracce di mercurio negli intestini dell'infelice, non è affatto argomento di importanza decisiva. Basti pensare che la Rosetta già da tempo faceva cura mercuriale (iniezioni di sublimato corrosivo e di calomelano) per combattere una inferiore luetica, il che è sufficiente a spiegare la presenza di sali mercuriali anche in altri organi, come certamente sarà possibile fare ai sopramenzionati periti.
Insomma sembraci che nella migliore delle ipotesi l'avvelenamento da sublimato entri soltanto come concausa di morte. N. N.
L'episodio dell' “Hagy” è fantastico
Nuove, precise smentite
Il signor Gerolamo Radice è andato a rapporto. Un cittadino qualsiasi, quando sa che è in corso un'istruttoria si reca alla procura del re, e depone per la verità e per la giustizia quanto gli consta.
I poliziotti dilettanti fanno invece una corsa in questura.
Premesso questo, sciogliamo il riserbo impostoci ieri.
• • •
Il ragioniere Polese-Santarnecchi, direttore dell'Arte drammatica ci ha per primo affermato:
— Il Radice ha fatto il mio nome fra coloro che avrebbero visto le famose ecchimosi. Invece io non ho sentito nemmeno una parola del colloquio fra la Rosetta e gli altri, per il buon motivo che ero con il signor Gatti nell'interno del caffè Hagy.
Il signor Guido Gatti, sentito a parte, ci ha ripetuto:
— Rammento vagamente che essendo entrato all'Hagy, dopo un certo tempo che non frequentavo più quel caffè, ho visto la chanteuse in conversazione con altri signori. Ma non ho sentito quello che dicesse. Era troppo distante, e con il Polese parlavo di tutt'altro.
Il terzo teste, il signor Focherini, direttore del San Martino, ci ha affermato:
— E' vero che la Rosetta, scesa di carrozza, mi pregò, di pagarle la corsa; ed è vero anche che essa m'accennò, senza entrare all'Hagy, al suo desiderio di lasciare Milano. Ma non ricordo che essa mi abbia detto di percosse ricevute dal fratello: e assolutamente escludo che la ragazza mi abbia mostrato le lividure denunciate dal Radice. Lividure che non potevano esservi sul suo corpo perchè la sera successiva al colloquio la Rosetta ha cantato al San Martino, ed io essendo sul palcoscenico ho potuto constatare che essa era, come di consueto, senza la minima scalfittura.
Quanto all'ultimo teste, signor Sanchioli, in presenza a persone di sicurissima fede ci ha detto:
– Io non ho sentito nè visto niente di quello che ha affermato il Radice. Sono arrivato al caffè, che la Rosetta aveva già finito di parlare con il signor Focherini, e con me essa ha parlato di nulla.
Per chiudere le nostre indagini su questo punto che non è che un diversivo procurato alla questura dal Radice, aggiungiamo quanto d'altro ci ha dichiarato il signor Focherini:
— La Rosetta ha parlato con me, in presenza di altri signori; e fra questi non ebbe certo una parte preminente il Radice, tanto che non ricordo nemmeno che egli abbia partecipato al colloquio.
***
D'altra parte, mentre il signor Radice cerca ora di attenuare la sua prima versione e smentisce di aver visto in compagnia di altri e quindi riferito ai cronisti dei giornali cittadini che la Rosetta presentava delle ecchimosi al braccio ed al petto, gli stessi cronisti chiamati in causa sostengono fermamente che il Radice ha proprio detto di aver visto e con lui gli altri – le ecchimosi al braccio e al petto mostrate dalla canzonettista.
I funzionari di P.S.
hanno studiato medicina legale
E ne fanno sfoggio nel fornire informazioni a qualche cronista che beve grosso.
Il caso del fratello della Rosetta che tratto in arresto l'altra sera ed accompagnato in guardina fu colto da improvvisa alienazione mentale è quanto mai pietoso. Egli, sono ormai ventiquattro ore, è ancora in uno stato stuporoso e ripete ancora il nome della disgraziata sorella.
I funzionari di P.S. – si è stampato – han detto che è un epilettico.
E si è detta e si è stampata una bestialità, poichè quello che conta, gli egregi sanitari dell'Astanteria di via Lamarmora non hanno riscontrato che l'Alessandro Andressi sia stato preso da epilessia, ma ritengono si tratti, appunto, di un caso di alienazione mentale.
Ah! quell'inchiesta della questura!
Nel quartiere di Porta Ticinese i poliziotti stanno svolgendo... l'inchiesta, quella famosa inchiesta della questura.
E sentite come: l'altra sera numerosi agenti in borghese se ne andarono in piazza Vetra e se ne stettero seduti per terra, sul rialzo della piazza, accovacciati, come in agguato. E quando o un ragazzo, o un vecchio o un pregiudicato veniva avvistato, gli agenti scattavano come spinti da una molla e piombavano addosso al malcapitato:
– Agguantalo che è un ladro ! Era la parola d'ordine.
E sta bene. Fu così che undici persone vennero accompagnate, con buoni modi, dicono gli agenti, con pugni dicono gli altri – non importa! – alla Sezione II di P.S. in via della Signora e non a San Fedele per far le cose alla chetichella.
Ieri, era già l'ora che volge il desio, e gli undici arrestati protestavano: erano accusati di qualche atto specifico? Ed allora essi chiedevano di essere inviati al Cellulare piuttosto che esser tenuti in una lurida guardina senza aria, senza luce, senza vitto e senz'acqua!
Il commissario della Sezione, finalmente compresa la assurdità di quegli arresti... intimidatorii, finì per rilasciarli: ma volle farsi in merito verso il patrio governo e non fece dare ai malcapitati i due soldi di indennizzo, diciamo così, che ad essi spettavano. Bisognava fare economia: vi sono le circolari del Cosentino che sono famose a questo proposito.
Ricordate! Non dare, ai senzatetto e senza pane, il miserabile bono dell'alloggio e del vitto, più di una volta sola…
Ma anche questo, ora, non importa. Quello che ci preme rilevare è che l'inchiesta, la famosa nuova e non ultima inchiesta della questura, si riduca a fare degli arresti per misure… di prudenza: a invitare in questura coloro che han visto, per toglierli dalla circolazione.
Infatti certa Quartiroli Giuseppina, abitante in via Arena 22, che aveva assistito ai noti episodi di Piazza Vetra fu invitata in questura ieri mattina per deporre… e, a quanto si assicura, non fece più ritorno…
Alle nove di sera non si era ancora vista. Perché? Mah!…
Dobbiamo ripeterci ancora?
Chi è che non vede l'enormità di una inchiesta poliziesca, mentre è aperta un'istruttoria giudiziaria: chi è che non comprende come l'ostentato zelo delle autorità di San Fedele, sorretto dalla opera in sordina dei poliziotti, non possa offrire alcuna garanzia: tutt'altro!
11 h) Corriere del Pomeriggio,
domenica 31 agosto 1913 - pag. 5
I risultati ufficiali
della perizia
sulla morte della
canzonettista Andressi
Le riserve dell'autorità
giudiziaria sulla morte dell'infelice canzonettista Elvira Andressi
sono ieri cadute in seguito alla presentazione di un primo rapporto
dei periti medici dott. De Dominicis e Castelli, sui risultati della
necroscopia eseguita al Cimitero Monumentale e sulle ricerche
compiute nei laboratori dagli stessi sanitari.
I periti hanno giudicato
che la morte dell'Andressi è dovuta unicamente all'azione del
sublimato corrosivo ingoiato dalla canzonettista a scopo suicida.
Sul corpo della suicida
furono rilevate delle lesioni che dai periti stessi sono state
giudicata insignificanti. A quanto ci consta si tratta di semplici
abrasioni al gomito del braccio sinistro ed alla mano destra. Risultò
inoltre che la defunta era affetta anche da una grave malattia
costituzionale, conseguenza dell'esistenza sua depravata, tale da
diminuire assai la resistenza del suo organismo.
Di fronte a tali
risultati vengono meno le dicerie di violenze usate dagli agenti di
P.S. durante la nota ribellione al Carrobbio. Nessuna traccia di
percosse al petto ed alla nuca della morta venne rilevata. Occorre
notare che su questi punti l'autorità giudiziaria richiamò
l'attenzione dei medici, perché era stato detto che l'Andressi era
stata colpita da una piattonata al petto e da un colpo vibrato col
calcio della rivoltella alla nuca.
L'istruttoria tuttavia
non sarà chiusa.
Il giudice istruttore
cav. Banzi si riserva di sottoporre altri quesiti ai periti medici
per giungere alla scoperta della verità. Egli si prefigge di
accertare la causa delle lievi abrasioni riscontrate al braccio ed
alla mano della morta, e se l'Andressi sia mai stata fatta segno a
maltrattamenti da parte di alcuno. Com'è noto, il signor Gerolamo
Radice sostiene che la sera prima di quella sua tragica fine
l'Andressi ebbe a mostrargli le ecchimosi al braccio, dicendo che
erano le conseguenze di percosse da parte di un fratello, al quale
essa aveva negato denaro.
Resta però fin d'ora
escluso – autorizza a dichiarare l'autorità inquirente – che le
guardie abbiano usato violenze materiali contro la disgraziata
canzonettista.
12) Una vicenda subito
popolare
La storia di Rosetta
diventa subito emblematica nell'ambiente della piccola malavita
milanese, fino a provocare tentativi di emulazione a due settimane di
distanza! Sempre che non si tratti di (un'altra?) montatura della
polizia.
12 a) Corriere del Pomeriggio,
giovedì 11 settembre 1913 - pag. 6
Due nottambule che si
avvelenano
in Questura
In via Cappellari
passeggiavano, questa notte, due nottambule – Maria Gennari di anni
20, abitante in via Brembo, 9, e sua cugina Gennara Gennari, di 23, domiciliata in via Vetraschi, 3, - quando furono avvicinate da vari
agenti della seconda sezione di Questura i quali le dichiararono in
contravvenzione. Le ragazze protestarono, si rifiutarono di seguire
le guardie e una di esse si mise a gridare: – Volete farci fare la
fine della « Rosetta » ? – alludendo alla morte della canzonettista
Andressi avvenuta dopo la ribellione alla guardie in via Torino.
Pare che le due
nottambule siano rimaste profondamente suggestionate dalla fine
dell'Andressi: la quale, com'è noto, appena tratta in arresto – secondo le risultanze dell'inchiesta della Questura – si avvelenò.
Infatti tanto l'una che
l'altra appena condotte in Questura hanno tentato di avvelenarsi. La
Maria Gennari mentre si trovava chiusa nella guardina di San Fedele
ha ingoiato una sostanza venefica non ancora bene accertata. L'altra
era stata introdotta nell'ufficio del vice-commissario Salerno della
Sezione seconda, in via della Signora, quando a un tratto afferrò il
calamaio ingoiando sorsi d'inchiostro. Il funzionario si precipitò
su di lei per strapparle il calamaio ed ella si gettò a terra
strillando disperatamente.
Costei, poiché il suo
tentativo non aveva avuto gravi conseguenze, fu condotta al
Cellulare. La Maria Gennari ha ricevuto invece ricovero all'Ospedale
dove non ha voluto specificare quale sostanza venefica ha ingoiato. I
medici credono però trattarsi di sublimato corrosivo.
13) Dopo la morte di
Rosetta: processi e malavita (un anno e mezzo vissuto
pericolosamente)
L'iter giudiziario per la morte di Rosetta si completerà in un anno e mezzo,
mandando tutti assolti. Ma in questo breve lasso di tempo i fratelli
Andressi avranno modo di assurgere ancora diverse volte agli onori della cronaca.
Il primo a uscire di
scena sarà il "fratello buono", Arturo. Sì, perché tra
gli indagati per i fatti del 27 agosto, la notte della morte della
Rosetta, oltre a un certo numero di agenti di polizia, continuava a
esserci anche il fratello Arturo che, a detta di tutti, si era
limitato ad assistere la sorella dopo il primo assalto della polizia.
In novembre però, dopo lo stralcio della sua posizione, viene
assolto.
13 a) Corriere della Sera,
domenica 9 novembre 1913 - pag. 4
Il suicidio della "Rosetta"
e l'assoluzione del fratello
Ritorna in scena la
brutta vicenda di parecchi mesi fa, che ebbe come suo culmine
drammatico la morte per avvelenamento della giovanissima etèra
Elvira Andressi detta « Rosetta », e per la quale continua sotto il
controllo del giudice istruttore Banzi l'istruttoria contro due
agenti di P.S.: imputati di avere se non provocato la fine della
disgraziata con busse e maltrattamenti come si era da prima
dichiarato, contribuito tuttavia con le loro violenze a spingerla al suicidio
per disperazione. Ricordiamo infatti che la « Rosetta » buttata a
terra, a quanto si afferma, e calpestata dagli agenti, ingoiò quattro
delle cinque pastiglie di sublimato corrosivo che portava seco in un
tubetto riuscendo a ingestirne una e mezza circa, e rimettendo le
altre.
Occupandoci l'ultima
volta di questo triste episodio giudiziario, accennavamo allo
stralcio di altra causa, a carico di Arturo Andressi, fratello
dell'Elvira, e di Antonio Marelli, i quali furono arrestati
rispettivamente la notte stessa e il giorno seguente alla ribellione
di cui ci occuperemo brevemente. La quale, ricordiamo a migliore
intelligenza del processo di ieri contro entrambi costoro, ebbe due
fasi, svoltasi la prima, come si disse, al Carrobbio e la seconda,
poco distante, in Piazza Vetra.
La « Rosetta » si
trovava verso l'una e mezza di notte in quel primo luogo con altre
ragazze allegre tanto allegre da fare un vero baccano e disturbare la
pubblica quiete. In quella arrivarono due agenti di P.S., che dopo
breve alterco tentarono di arrestarle. Ma le guardie avevano fatto i
conti senza un gruppo di giovanotti che improvvisatisi paladini delle
arrestate, e specialmente della bella « Rosetta », tolsero loro la
preda. Le guardie ritornarono a San Fedele dove chiesero man forte ad
altri agenti della squadra mobile, poi tutti assieme si accinsero
alla caccia grossa. Ma come scovare la selvaggina? Bisogna qui
ricordare che uno di quei giovani, nessuno dei quali identificato,
intromettendosi per chiedere la liberazione della Rosetta aveva
dichiarato, sembra contro verità, di essere suo fratello. Da qui le
mosse e il facile rintraccio di Arturo Andressi che, dice lui, avuto
sentore di quanto era accaduto alla sorella era corso a soccorrerla.
E l'Andressi infatti fu trovato in piazza Vetra, verso le ore 3,
presso la Rosetta distesa a terra e piangente per le violenze subite.
Oltre all'Andressi, altri furono arrestati ma questi ultimi furono
tosto rilasciati, mentre a quello andò il giorno dopo a tenere
compagnia in carcere il Marelli che gli agenti affermano essere stato
della partita.
Morta la Rosetta, il
processo contro gli eventuali responsabili della sua tragica fine ed
il processo per ribellione contro l'Andressi e il Marelli
procedettero di conserva fino allo stralcio, avvenuto ad istanza
dell'avv. F. Costa, patrono della famiglia Andressi costituita parte
civile contro le guardie e ad un tempo difensore dei due imputati di
ieri: provvedimento questo che trova la sua spiegazione nel fatto che
l'istruttoria, più complessa e delicata nei riguardi dei due agenti
accusati a piede libero di abuso di autorità e di violenze,
richiedeva più vaste e più minute indagini, non peranco, come si
vede, ultimate, mentre erano sempre detenuti e tali comparvero al
processo, l'Andressi ed il Marelli.
L'Andressi Arturo
sostenne a sua difesa di non essersi trovato al Carrobbio quando
avvenne l'arresto della propria sorella e tantomeno di avere
partecipato alla ribellione. L'equivoco, secondo l'imputato, dipese
dall'affermazione dello sconosciuto difensore della « Rosetta » che
aveva giustificato il suo intervento con l'attribuirsi una parentela
con la ragazza che non aveva.
– Io – soggiunse
l'Andressi – dormii in casa mia fin verso le 2 di quella notte, fino
cioè a quando mi vennero a raccontare quanto era accaduto alla mia
povera sorella.
Ancora più semplice la
difesa del Marelli:
– Quella notte la passai
interamente in casa della mia amante.
Beato lui!... Mica per
altro: perché fu la sua salvezza, nonostante una delle due guardie
incriminate per la morte della Rosetta abbia tentato di smentirlo,
come tentò di smentire l'Andressi sostenendo che entrambi si
trovavano fra i ribelli. La guardia infatti fu a sua volta
contradetta [sic] dai testi a difesa, taluno dei quali confermò le
violenze subite dalla « Rosetta » ed in qualche contraddizione
cadde lo stesso teste d'accusa nella sua deposizione.
Il P.M. cav. Lampugnani
concluse per l'assoluzione del Marelli per non provata reità e per
la condanna dell'Andressi, nonostante le testimonianze a difesa a 50
giorni di reclusione. Chiese l'assoluzione di entrambi gli imputati
il difensore, ed in questo senso giudicò il Tribunale presieduto dal
cav. Salvi, ritenendo non provato che essi abbiano partecipato in
alcun modo ai fatti loro imputati.
La fine dell'istruttoria
a carico degli agenti si annuncia prossima.
Nel frattempo arriva
l'esito del processo di appello per il furto all'orefice Archenti
avvenuto nell'ottobre 1912 e per cui Rosetta era già stata assolta
in primo grado, un mese prima di morire. Nel processo di appello
vengono assolti tutti, anche gli imputati principali!
13 b) Corriere della Sera,
sabato 20 dicembre 1913 - pag. 4
CORTE D'APPELLO DI MILANO
Il processo pel furto
all'orefice Archenti
chiuso con un'assoluzione
generale
I lettori ricorderanno il
movimentato processo svoltosi quattro mesi or sono in tribunale
contro i presunti autori e complici del furto di 15.000 lire di
gioielli consumato nell'ottobre dell'anno scorso in danno
dell'orefice Archenti.
Le prove erano tanto
indiziarie che i giudici allora mandarono assolta la maggior parte
degli imputati, fra cui la giovane mondana Rosetta Andressi, che morì
poco tempo dopo in circostanze misteriose, e condannarono l'amante di
costei, Attilio Orlandi a un anno e 9 mesi di reclusione ed Emilio
Gambini a un anno e mezzo della stessa pena.
Contro tale sentenza i
due condannati ricorsero in appello, e ieri venuta la causa in
discussione dinanzi alla Corte, presieduta dal cav. Jona, i
magistrati, in seguito alla difesa degli avv. U. Marcora e Romita e
alle favorevoli conclusioni del P. M. cav. Biasioli, mandarono
assolti l'Orlandi e il Gambini per non provata reità.
Sono passati poco più di
sei mesi dalla morte di Rosetta e suo fratello Edmondo continua a
fare il teppista:
13 c) Corriere della Sera,
martedì 3 marzo 1914 - pag. 7
Ultime di Cronaca
Un tumulto alla fiera di
porta Genova
provocato da un
pregiudicato
Ieri sera sulla
mezzanotte, alla fiera di porta Genova, è successo un tumulto
indiavolato per causa del contegno di un pregiudicato, certo Edmondo
Andressi, di 22 anni, abitante. in corso Ticinese, 46. L'Andressi è
fratello di quella canzonettista Rosetta che morì in seguito ad
avvelenamento procuratosi con delle pastiglie di sublimato corrosivo, ingoiate mentre la guardie la traevano in arresto.
Il giovanotto — che
altre volte ha avuto a che fare con le guardie — si aggirava nella
folla e teneva un contegno indecente, molestando le donne.
Naturalmente il contegno del giovinastro provocò numerose proteste,
ma egli non se ne impensierì gran che, e continuò, uscendo anche in
minacce.
Allora si mossero alcuni
uomini che lo affrontarono invitandolo a smetterla, pronti, in caso
contrario, a dargli una buona lezione. Il contegno provocante
dell'Andressi fece nascere un violento pugilato, al quale
parteciparono parecchi, tra le grida delle donne che fuggivano
spaventate.
Accorsero anche alcune guardie, le quali, saputo di che
cosa si trattava, invitarono l'Andressi al Commissariato. Ma il
giovanotto si rifiutò di seguirle e tentò di svignarsela, così che
si impegnò una nuova colluttazione tra lui e gli agenti. Finalmente
fu afferrato, ammanettato e trascinato a viva forza davanti al
delegato Sedelmayer, che lo fece rinchiudere in guardina.
Ma neanche là dentro
l'Andressi si quetò, anzi diede in tali escandescenze che si
credette opportuno farlo ricoverare all'Astanteria di via Lamarmora,
ove fu accolto altra volta.
15 aprile 1914. Un altro
episodio "di ribellione" alle forze dell'ordine sempre in
una zona vicinissima a piazza Vetra (la scomparsa via Olocati), portò
nuovamente alla morte di una persona del giro di Rosetta: si tratta
Arturo Orlandi, fratello di quell'Attilio che avevamo conosciuto come
amante della Andressi e da poco scagionato del furto nel negozio
dell'orefice Archenti. Questa volta la battaglia nasce a fronte di un
tentativo di furto presso un negoziante di ombrelli e ventagli. Il
che conferma da un lato l'effettiva coesione e resistenza attiva
della malavita di quartiere e dei suoi fiancheggiatori di fronte alle
operazioni di polizia, dall'altro una certa sbrigatività delle forze
dell'ordine nel passare alle vie di fatto. Il racconto della
gigantesca rissa con morto e due feriti gravi è particolarmente
vivace sulle colonne del Corriere della Sera (che, a differenza
dell'Avanti tende sempre a privilegiare la versione della Questura).
Impressionante, tra l'altro come apparentemente tutti fossero in
grado di estrarre una pistola, in caso di necessità.
13 d) Corriere della Sera,
giovedì 16 aprile 1914 - pag. 6
Mezz'ora di battaglia
di
un centinaio di teppisti contro due vigili e un bersagliere
Un
vigile gravemente ferito spara uccidendo un uomo e ferendone un altro
Ad una concatenazione di
episodi di violenta ribellione e di sangue ha dato luogo ieri sera la
sorpresa in flagrante e l'inseguimento di un ladro.
Il fattaccio, che è
cominciato in un modo comunissimo, è andato assumendo un carattere
di eccezionale gravità, ed ha culminato in una vera rivolta degli
elementi teppistici di un intero quartiere contro gli agenti
dell'ordine. Il delinquente in fuga ha disseminato lungo la sua corsa
la parola della ribellione, provocando un conflitto le cui
conseguenze sono state dello più gravi.
Erano circa le 20. Il
signor Desiderio Antonioli, che ha un negozio di ombrelli e ventagli
in corso Ticinese, 68, ordinava ad un suo nipote di 16 anni, di nome
Angelo, di salire all'appartamento posto al secondo piano per
prendere alcuni oggetti. Il giovanetto saliva infatti, ma si
arrestava sorpreso sul pianerottolo avendo visto l'uscio
dell'appartamento socchiuso e scassinato. Preso dalla paura, si
affrettò a ritornare in negozio dove raccontò la scoperta.
L'Antonioli, lasciato un garzone in bottega, poneva un suo parente a
guardia dei portone di casa ed egli usciva sulla via in in cerca di
un vigile. Il giovanotto intanto, all'insaputa di tutti,
evidentemente spinto dalla curiosità, ebbe l'imprudenza di risalire
all'appartamento. E questa volta nel fare i gradini marcò assai
forte il passo colla evidente intenzione di farsi sentire. E riuscì
nel suo intento, giacchè stava per raggiungere il pianerottolo del
secondo piano, allorchè dall'uscio della casa sbucò in tutta fretta
un giovanotto alto e scamiciato, che brandiva un pezzo di ferro.
Egli con uno spintone fece ruzzolare a terra il giovane ed a
precipizio scese le scale, e prima ancora che l'uomo di guardia alla
porta potesse affrontarlo, aveva già raggiunta la via dandosi alla
fuga.
Un inseguimento drammatico
Il giovanetto intanto si era
rialzato e gridando al ladro si era messo ad inseguire l'individuo in
fuga. Anche altre persone si aggiunsero al giovane nella caccia, ma
con poco risultato, poiché il ladro aveva addirittura le ali al
piede ed era già riuscito a distanziare grandemente i suoi
inseguitori.
Egli aveva già risalito il corso Ticinese fino
all'altezza di via Vetere, quando gli si parò dinanzi, sbarrandogli
il passo, un vigile che si trovava là di servizio e che si era
insospettito di quella corsa pazzesca. Il vigile ora certo Giovanni
Ripamonti, di 28 anni, abitante in via Ripamonti, 38, un uomo alto e
forte, che non esitò un istante ad affrontare il fuggitivo.
Ma
questi con rapida mossa alzò la leva di ferro che teneva ancora
impugnata a difesa e calò un colpo addosso al vigile. Il Ripamonti
tentò schivare la botta direttagli in pieno, ma rimase colpito ad
una mano e dalla ferita cominciò a sgorgare abbondantemente il
sangue. Non si perdette d'animo e si pose alle calcagna del
fuggitivo, che aveva imboccato via Vetere. Intanto al vigile si era
unito anche il bersagliere Alfredo Jaschi del 12° reggimento, prima
compagnia, il quale era sopraggiunto nell'istante in cui il vigile
era rimasto ferito. A metà di via Vetere egli aveva già raggiunto
il ladro e stava per afferrarlo, ma questi ricorreva ancora alla leva
e tirava un altro colpo al soldato.
Per fortuna però questa volta il
colpo andò a vuoto, e l'inseguimento continuò più accanito che
mai. La gente in via Vetere, poi in via Arena, sostava spaventata
alla scena inattesa, ma nessuno aveva il coraggio di affrontare lo
scamiciato, che ad intervalli si volgeva minaccioso con l'arme in
mano.
Ad un certo punto di via Arena, visto che l'individuo aveva una
resistenza a tutta prova, il vigile, un po' per intimorirlo, un po'
per provocare l'intervento di qualche guardia, estrasse la rivoltella
e sparò due colpi in aria.
Solidarietà teppistica
I due colpi di
rivoltella impressionarono evidentemente il fuggitivo, che, stanco,
estenuato, cominciò a perdere terreno.
Il Ripamonti, dal canto suo,
raddoppiò di vigore e riuscì a portarsi vicino al ladro e ad
afferrarlo. Questi si dibattè disperatamente, poi si pose a chiamare
aiuto, gridando in milanese: — Sono il Noè! aiuto!... aiuto!..,
vogliono ammazzarmi, vogliono condurmi in prigione!...
Il gruppo
erasi fermato quasi all'angolo di via Arena con via Olocati a pochi
passi da una bettola che si trova nella casa N. 33 e che è famosa
come albergo della malavita. Il temporale aveva fatto rifugiare
nell'osteria gran numero dei frequentatori del quartiere e la sala
era piena.
Le grida disperate del ladro misero i bevitori in
subbuglio. Colui che invocava aiuto era ben noto e molti di quelli
che si trovavano là erano suoi amici. In un attimo tutti furono
fuori ed il gruppo formato dall'arrestato e dai suoi inseguitori si
trovò improvvisamente circondato da una cinquantina di persone
ostili e minacciose. Ad essi si unirono altri accorsi dalle case
vicine e parecchie donne.
In un attimo il bersagliere Jaschi venne
separato dal vigile e circondato da un gruppetto di furibondi che
presero a percuoterlo ed a malmenarlo. Il vigile, che teneva stretto
l'arrestato e si ostinava a non lasciarlo, fu a sua volta investito e
percosso furiosamente. Pugni, calci, colpi di ombrello... le donne
specialmente si mostravano accanite contro il disgraziato,
percuotendolo in viso e sul capo con gli ombrelli. In pochi secondi
il Ripamonti si trovò col viso sanguinante, la giacca strappata,
pesto e contuso in ogni parte. Ma con tenacia mirabile, nonostante i
colpi, pur cedendo terreno ed indietreggiando passo passo, più
portato che spinto dalla calca dei suoi aggressori, tenne fermo
l'arrestato ed aiutandosi anche col braccio ferito riuscì ad
impedire che gli fosse strappato di mano.
La sua resistenza non
poteva però ormai essere che di pochi minuti: il valoroso vedeva che
il bersagliere, a pochi passi da lui, faceva sforzi eroici per
liberarsi e correre in suo soccorso e si sforzava, con uno sforzo
supremo di tener testa, per dar tempo all'altro di correre in suo
aiuto.
Ma anche gli aggressori si rendevano conto di questo fatto:
raddoppiarono perciò gli sforzi e se non riuscirono a liberare
l'arrestato, pervennero a cacciare il vigile dentro l'osteria.
Fu un
momento terribile pel Ripamonti che. circondato dalla folla furiosa e
portato lontano dall'unico che potesse portargli appoggio, si vide in
condizioni disperate. In quel momento, visto in fondo all'osteria un
operaio della Edison che gli era noto di vista, lo chiamò,
invocandolo in suo aiuto. L'operaio, che stava titubante ed incerto
sul da fare, all'appello del vigile si risolse ed estratta una
rivoltella, sparò due colpi in aria.
Selvaggia battaglia I due
spari produssero qualche secondo di indecisione fra quelli che
circondavano il Ripamonti, il quale ne approfittò per riprendere
fiato e per mettersi nelle migliori condizioni possibili per
fronteggiare il nuovo assalto. Questo non si fece attendere e fu più
grave di tutti quelli che lo avevano preceduto. Quattro o cinque
uomini vigorosi si lanciarono addosso al vigile e presero a colpirlo
con pugni al capo cd al viso. Altri gli afferrarono le braccia e le
gambe, stringendolo, picchiandolo, mordendolo.
Scosso, sballato,
sollevato da terra, il vigile fu costretto finalmente a lasciare
l'arrestato che, fra le urla di trionfo dei liberatori, venne spinto
in mezzo alla strada ed incitato alla fuga.
Ma prima che il ladro,
che aveva ricevuto una parte dei colpi diretti ai vigile, avesse
potuto rimettersi e pensare alla fuga, il bersagliere, che pur non
essendo riuscito a giungere sino al Ripamonti si era però liberato
dei suoi aggressori, lo afferrava, togliendoli [sic] ogni speranza di
scampo.
Nel tempo stesso in appoggio al Ripamonti, arrivava un valido
aiuto.
In corso Ticinese, nel momento in cui avvenivano la fuga e
l'inseguimento, si trovava anche il vigile urbano Del Frate. Egli,
visto l'assembramento, si era messo a correre, ma trovandosi molto
lontano non potè giungere in tempo per prendere parte alla prima
fase della drammatica lotta.
Arrivava però in un momento
estremamente difficile, portando un aiuto decisivo.
Infatti, vedendo
che il soldato aveva ripreso il fuggitivo, la folla si riaggruppò
ostile intorno ai due, lasciando momentaneamente libero il Ripamonti.
Questi ne approfittò per portarsi vicino al bersagliere e prestargli
il suo aiuto. Il Del Frate arrivò in quel momento e menando gran
colpi col calcio della rivoltella, riuscì a portarsi vicino ai due
che, impegnati in una nuova, furiosa colluttazione, si difendevano
disperatamente.
Il nuovo arrivato sparò due colpi in aria, sperando
di spargere un po' di timore e di indecisione nella folla, ma non
ottenne quanto desiderava. Anzi gli aggressori, ben comprendendo che
la lotta stava per diventare vana, si serrarono addosso ai tre, in un
ultimo supremo sforzo, moltiplicando i colpi con ferocia incredibile.
Tragico epilogo
Il bersagliere ed il Ripamonti erano estenuati; il
Del Frate, per quanto in migliori condizioni, si trovava però
impegnato in una impresa superiore alle forze di un sol uomo.
D'altra
parte la resistenza aveva inferociti gli assalitori. Specialmente
quel gruppo di quattro o cinque che già prima si era serrato addosso
al Ripamonti, si mostrava deciso a finirla. Lampeggiò qualche
coltello; vari colpi furono parati appena ed in malo modo. Il Del
Frate intuì il pericolo ed alzata la rivoltella tentò di sparare
qualche colpo in aria. Ma l'arma fece cilecca.
Nello stesso tempo uno
dei più indemoniati assalitori, un individuo basso e tarchiato che
già si era distinto per la violenza e la brutalità, si lanciò sul
Ripamonti. Egli impugnava un coltello da cucina dalla lama larga e
forte e gridava che voleva finirlo.
Il Ripamonti se lo vide venire
addosso e comprese tutta la gravità del pericolo. Se fosse stato
meno estenuato avrebbe certamente opposto una diversa difesa; ma si
reggeva a mala pena in piedi ed era battuto e percosso da più parti.
La mano che stringeva la rivoltella si alzò e fece partire, uno dopo
l'altro, due colpi.
Seguirono due urla dolorose; poi un silenzio che,
dopo il tumulto di prima, era profondamente tragico.
Gli aggressori
si erano improvvisamente sbandati riunendosi in vari gruppi lontano:
per terra, due di loro, si contorcevano, lamentandosi penosamente.
Anche il Ripamonti, che nell'atto della difesa aveva compiuto
l'ultimo sforzo di cui era capace, cadeva, preso da momentaneo
deliquio.
Qualche minuto dopo, agenti di pubblica sicurezza e vigili,
che la notizia di quanto era accaduto aveva raggiunto, accorrevano da
tutte le parti.
Il ladro, che il bersagliere Taschi [la grafia del nome del bersagliere oscilla tra Jaschi e Taschi n.d.r.] teneva sempre,
venne preso da due dei nuovi venuti e portato al Commissariato; gli
altri intanto si affaccendavano intorno ai caduti.
L'aggressore del
Ripamonti era stato colpito in pieno viso e rantolava; l'altro era
invece colpito al basso ventre, e comprimendosi con le mani la ferita, si
lamentava e piangeva. Vennero adagiati su una vettura e trasportati
all'Ospedale Maggiore.
Le vittime
Con un'altra vettura venne portato
all'Ospedale Maggiore il Ripamonti, che era ferito in più parti e
perdeva sangue dal naso e dalla bocca. All'Ospedale Maggiore i feriti
vennero ricevuti dal dott. Redaelli che prestò loro le cure del
caso. Si procedette poi alla identificazione dei due feriti dal
Ripamonti. L'aggressore del vigile venne riconosciuto per Arturo
Orlandi, d'anni 30, calzolaio, abitante un tempo, con altri fratelli,
in Alzaia Pavese n. 42. Da un pezzo però era senza fissa dimora e
non faceva più il calzolaio: la Questura gli sospettava una nuova
occupazione. Infatti nelle sue tasche venne, fra altro, trovato un
grimaldello. Il proiettile lo aveva colpito allo zigomo sinistro ed
era entrato nel cervello: le sue condizioni, quando giunse
all'Ospedale, erano disperate. Morì infatti poco dopo.
Nell'altro
ferito si riconobbe certo Orfeo Franchini, d'anni 18, abitante in via
Malghera, 10, cameriere disoccupato. Il proiettile lo ha colpito al
ventre producendogli una gravissima ferita: dovette essere subito
operato di laparatomia e si trova in condizioni disperate.
Anche il vigile Ripamonti
è in condizioni gravi. Le ferite e le contusioni superficiali non si
contano; ma sono tutte di poca gravità: si temono invece serie
lesioni interne perché il valoroso agente ha frequenti colpi di
tosse con sputi sanguigni e presenta sintomi di commozione viscerale.
Sul luogo della tragica lotta si è recato il commissario Pastore con
numerosi agenti e venne iniziata una inchiesta per identificare
quelli che hanno preso più attiva parte all'aggressione. Da poco i
feriti erano stati trasportati all'Ospedale, quando all'agente scelto
Piazzese, di guardia, si presentava un giovanotto che domandava
notizie dell'Orlandi, e dichiarandosi per un suo fratello, chiese di
poterlo vedere. La guardia accondiscese subito al suo desiderio e il
dottor Redaelli, che era presente, si offri di accompagnare il
giovane nella cella mortuaria ove era già stato trasportato
l'Orlandi.
Davanti al cadavere avvenne una scena drammatica. Il
fratello usci dapprima in alcune imprecazioni, poi si chinò sul
morto e Io baciò piangendo e mandando lamenti. Dovette essere
strappato di là a viva forza e accompagnato verso l'uscita.
Scene dì
violenza all'Ospedale
Mentre si svolgeva la scena, nell'ufficio di
pubblica sicurezza ne accadeva un'altra. Due giovanotti, pur essi
fratelli del morto, si presentavano all'agente Piazzese e con fare
prepotente e vociando come energumeni richiedevano di vedere il
fratello. La guardia li invitò a tenere un contegno meno scorretto,
ma i due cominciarono a dare pugni sul tavolo, gridando ingiurie alle guardie ed improperi. Allora furono invitati ad allontanarsi, ma
essi, più che mai eccitati, gridavano che volevano vedere il
fratello. Uno di costoro, mordendosi le mani e stracciandosi in un
impeto di rabbia le maniche della giacca, si gettò a terra
dibattendosi come se fosse impazzito e sferrando calci all'indirizzo
del Piazzese. Al rumore era intanto accorso anche il capo posto
Losito in aiuto del compagno. Nella piccola stanza si accese allora
una colluttazione furibonda che minacciava di non aver fine, neanche
coll'intervento degli infermieri, accorsi pur loro alle grida. Ad
essa prese parte anche il terzo degli Orlandi, di ritorno dalla cella
mortuaria.
Si pensò allora di telefonare alla Questura centrale
donde partivano subito cinque o sei agenti della squadra mobile col
delegato Coglitore, i quali dovettero trascinare a forza, non senza
essersi impegnati in una nuova lotta, i tre individui sulla via.
Parve allora che gli Orlandi si fossero acquetati ed il gruppo
procedette senza incidenti fino in via Pattari. Quivi giunti, gli
arrestati, i quali avevano notato la presenza sulla via di alcuni
individui dei bassifondi, diedero di nuovo in ismanie e si gettarono
a terra urlando e dibattendosi.
Nuova colluttazione colle guardie
durante la quale andarono infrante le vetrine del bar Pirola,
provocando l'agglomeramento di una enorme folla di curiosi, dal corso
Vittorio Emanuele.
Ma le guardie, dato il loro grosso numero, ebbero
in breve ragione dei violenti e li trascinarono entrambi a San
Fedele, seguiti da un lungo codazzo di persone. A San Fedele vennero
chiusi subito in guardina in attesa che si calmassero.
I tre fratelli
del morto si chiamano: Giuseppe, venticinquenne, assistente edile;
Italo, ventenne, manovale e Attilio, ventunenne, pure assistente
edile. L'Attilio fu l'amante di quella Rosetta, donna della malavita
di cui si ebbe ad occupare già e lugubremente, la cronaca. E' colei
infatti che si avvelenò durante una violenta ribellione al Carrobio [sic],
mentre veniva tratta in arresto.
L'Orlandi ucciso è un ex-vigilato
speciale e stette qualche tempo anche al domicilio coatto. Era
insomma un pregiudicato pericoloso ed ora era attivamente ricercato
dall'autorità di P. S.
Altri particolari
Altri due individui vennero
tratti in arresto perchè parteciparono a queste ribellioni che
dovevano avere un epilogo tragico. Essi sono certi: Aristide
Piccaluga, d'anni 31, suonatore ambulante, abitante in via Olocati,
37 e Sante Mariani, d'anni 19, operaio, dimorante in via Olocati, 33.
Durante la ribellione in via Pattari, l'agente di polizia, Carmelo
Pizzi, riportò un morso ad una mano.
A San Fedele il vigile urbano
Del Frate al delegato Coglitore ed al commissario Patella fece una
diffusa narrazione dell'accaduto. Ricostruendo la violenta scena,
egli confermò di avere sparato un colpo in aria allo scopo di
intimidire e spaventare i rivoltosi e potersi così lanciare in aiuto
del suo collega impegnato e minacciato nella ribellione e costretto a
sostenere una lotta terribilmente impari. Avrebbe voluto sparare
nuovamente in aria, per diffondere ancor più il panico nella folla,
ma la rivoltella non funzionò più. Ed il vigile fece constatare ai
due funzionari come l'arma fosse guasta.
Della rivoltella, sebbene
inadoprabile, il Del Frate si servì ugualmente come strumento di
minaccia. Egli infatti continuò a serrarla in pugno come avesse
voluto ancora sparare, riuscendo cosi a fare un certo vuoto intorno
alla sua persona.
Nella notte la polizia ha messo in azione tutti i
suoi più rapidi ed efficaci mezzi d'indagine. Il quartiere che
comprende la vie Olocati e la via Arena — due strade in cui pullula
spaventosamente la malavita e dove hanno molti ladri e teppisti di
ogni specie e donne del marciapiede i loro rifugi abituali — è
stato questa notte battuto e scandagliato da pattuglie di guardie
organizzate dal vice-commissario Sedelmayer. Tutte le locande, le
infime osterie e molte case che ospitano di consueto pregiudicati e
altri individui che cercano di sottrarsi alle ricerche della polizia,
vennero visitate. Sono stati compiuti numerosi arresti.
L'osteria in
via Olocati, 33, è stata immediatamente chiusa. Mentre si trovava in
una guardina di San Fedele, uno dai fratelli Orlandi, quello a nome
Giuseppe, è stato assalito da una crisi violenta di convulsioni ed è
stato trasportato all'Astanteria di via Lamarmora con una lettiga
della Croce Verde.
A quanto pare però Giuseppe Orlandi è anche un
simulatore: le sue convulsioni non erano che una finzione per
prepararsi il terreno di difesa. Il dottore dell'Astanteria, infatti,
ha dichiarato che, nonostante le sue smanie ed i suoi gesti convulsi,
egli si trovava in condizioni normali. Ed ha provveduto perchè
venisse trasportato di nuovo a San Fedele.
Per coadiuvare la Questura
nelle sue indagini, si è recato questa notte a San Fedele il
segretario del riparto vigili urbani avv. Cappettini. Egli ha
dichiarato che l'autorità municipale terrà i due vigili urbani, il
Del Frate e il Ripamonti, se quest'ultimo riuscirà a salvarsi, a
disposizione dell'autorità giudiziaria.
Il giorno dopo nel
quartiere si fa una colletta per comprare qualche corona di fiori per
l'Orlandi ed Edmondo Andressi è tra i protagonisti.
13 e) Corriere del Pomeriggio,
venerdì 17 aprile - pag. 6 e Corriere della Sera,
sabato 18 aprile 1914 - pag. 6 [il testo che segue è una miscellanea tra i
due]
Un comitato di tre
pregiudicati
per onorare l'ucciso
nella ribellione
I fondi per le corone
sotto sequestro
Gli arresti finora eseguiti per la ribellione di via
Olocati sono cinquantotto. Uno dei giovani condotti stanotte in
Questura è certo Lodovico Villa, di 23 anni, abitante in via
Vetraschi. il quale frequenta la mala vita non ostante sia
proveniente da buona famiglia. Suo padre ha un negozio di cappellaio
a porta Genova.
Perquisito dagli agenti,
gli è stata scoperta, sotto gli abiti una di quelle borse che si
adoprano in chiesa per raccogliere le elemosine. in tela azzurra,
chiusa con lucchetto e una cerniera e munita dell'apertura per
introdurvi le monete. Sull'orlo si legge: « Luoghi Pii Elemosinieri
».
Il commissario Pastore,
capo della squadra mobile l'ha interrogato: — Dove hai preso questa
borsa?
— E' mia. La posseggo
da anni. Contiene 64 lire raccolte da me fra i compagni del povero
Arturo Orlandi, ucciso dal vigile. Noi avevamo deciso di deporre sul
suo feretro quattro corone, oggi al tocco e mezzo quando avranno
luogo i funerali. Le corone dovevano costare 100 lire. Io stavo per
raggiungere questa somma tra i miei amici, quando stanotte all'una
gli agenti mi hanno arrestato in via Chiusa.
— Il racconto che mi
fai — ha risposto il funzionario — può essere vero e può anche
non esserlo. In ogni modo io ti sequestro la somma come denaro di
provenienza ancora non accertata.
— Questo denaro è
sacro, è destinato a esprimere l'ultimo tributo d'affetto a un
povero amico.
— Io non posso mandarlo
che al procuratore del Re.
L'arrestato ha poi ripreso la sua calma
nella fiducia che il procuratore del Re gli renda giustizia. Ma
l'episodio non è finito qui.
Le chiavi della borsetta
erano in possesso dei vari membri del sedicente Comitato sono per
tributare le estreme onoranze all'ucciso e cioè: una al Villa; una
al ventiduenne Edmondo Andressi. di 22 anni, [sic] fratello della
canzonettista Rosetta che si avvelenò in via Torino; e la terza al
fabbri [sic] Domenico Rossi, di 25 anni, abitante in via Vetraschi, 16. Il
Rossi e il Villa sono fra gli arrestati. L'unico membro del Comitato
rimasto in libertà è Andressi il quale saputo che i fondi della
raccolta erano sotto sequestro è corso a date l'allarme all'avv.
Rota-Rossi e al fiorista incaricato di eseguire le quattro corone.
L'uno e l'altro sono
accorsi in Questura per reclamare la restituzione, ma il commissario
Pastore ha dovuto loro ripetere la risposta data all'arrestato. Il
fiorista — Ganzerla — che ha il suo negozio in via Paolo da
Cannobio è rimasto male: — Ma io ho lavorato tutta notte per
confezionare le quattro corone che ora son pronte. Chi me le paga? E
che ne faccio io se nessuno me le paga?
— Ma — ha opposto il
commissario — se quattrini fossero di provenienza furtiva? Per
esempio: sulla borsetta è scritto « Luoghi Pii Elemosinieri ».
— La borsetta — ha
risposto il fiorista —non può essere stata rubata. L'ho vista in
mano a quei giovani tante volte, per lo meno da otto anni.
Un'inchiesta municipale
Mentre procedono
ininterrotte le indagini dell'autorità di P. S. per identificare
tutti quegli altri individui che presero parte alla tragica scena di
via Olocati, in difesa di un malvivente, anche il Commissario regio,
conte Olgiati, ha ordinato per proprio conto una minuziosa inchiesta
sul grave fatto, affidandone l'incarico al segretario del III
reparto, avv. Cappettini e al delegato municipale rag. Resta.
Entrambi fin da ieri hanno proceduto all'interrogatorio di molte
persone che furono presenti al fatto, e potranno a suo tempo fornire
all'autorità giudiziaria degli interessanti elementi di prova.
I funerali e l'autopsia
Ieri ebbe luogo il
trasporto funebre dell'Arturo Orlandi che rimase ucciso da un vigile
nella violenta ribellione avvenuta sere sono in via Olocati. Molto
tempo prima dell'ora fissata per i funerali, nell'entrata e nel
cortile dell'Ospedale Maggiore si osserva un movimento insolito.
Oltre i parenti, intimi e lontani del morto, si notano gli amici, di
ogni sesso ed età, che vogliono rendere un'ultima prova di
attaccamento al defunto. Ma tra la varia folla, dove si notano molti
curiosi, sono anche molte guardie di P. S. e all'entrata
dell'Ospedale staziona un gruppo di carabinieri. Precauzioni queste
prese dall'Autorità per timore di qualche disordine, dato che fra
gl'intervenuti non mancano certo i pregiudicati.
All'ora fissata, le 13.30, il Corteo si muore dal cortile, diretto al Cimitero
Monumentale. Sul carro di terza classe sono state deposte numerose
corone di garofani rossi. Oltre quelle dei parenti ve ne sono tre:
degli Amici di piazza Vetra, degli Amici di via Olocati e degli Amici
di via Arena. Il corteo, preceduto da una squadra di agenti di P. S.
attraversa la città passando per via Paletta, Chiaravalle,
Bottonuto, Tre Alberghi, Dante. Legnano, viale Volta e piazzale
Cimitero. La folla che era sparsa nel cortile e fuori dell'Ospedale,
lungo il tragitto, si va assottigliando finchè rimangono solo le
amiche e gli amici che seguono il carro fino al Cimitero. Di questi
ultimi però, prima che si iniziasse il funerale, una decina furono
invitati in Questura dal delegato De Benedetti per misura di P. S.
Un compagno lesse un
discorso nel quale parlò del morto, al quale mandò un saluto di
rimpianto e un ultimo addio. Alla fine tutti, amici e amiche,
strappano dalle corone ciascuno un garofano per serbarlo come ricordo
dell'amico morto.
Dopo i funerali ebbe
luogo l'autopsia ordinata dall'autorità giudiziaria, ed eseguita dai dottori Momo e Redaelli. Presenziava il giudice istruttore avv.
Carbone assistito dal cancelliere Garnaschelli. I dottori hanno
constatato che la morte dell'Orlandi avvenne in causa del colpo di
rivoltella sparato dal vigile e rinvennero il foro d'entrata alla
guancia sinistra e il foro d'uscita alla nuca.
Il processo a carico
degli agenti per la morte di Rosetta prosegue: arrivano i mandati di
comparizione.
13 f) Corriere della Sera, giovedì 7 maggio 1914 - pag. 7
Sette mandati di
comparizione
per la morte della "Rosetta"
I lettori ricorderanno
certamente quel triste episodio svoltosi mesi sono e nel quale
lasciava la vita la giovane e bella mondana [nell'edizione successiva: una giovane nottambula n.d.r.], Rosetta Andressi. Costei
venne compresa, una notte, in una retata fatta da un pattuglione di
agenti al Carrobio: vivamente impressionata, ingoiò delle pastiglie
di sublimato corrosivo e nella mattinata seguente moriva all'Ospedale
Maggiore. Ma su quella morte sorsero dei gravi sospetti concretati in
una denuncia sporta da un fratello della Rosetta contro gli agenti
che avevano arrestata la donna e che l'avrebbero maltrattata e
percossa al punto — sempre secondo il denunciante —da causarne la
morte.
L'istruttoria, che mira a
stabilire le vere causo del tragico epilogo di un episodio così
comune nei bassi fondi milanesi, dura tuttora ed ora il giudice
istruttore avv. Banzi ha spiccato mandato di comparizione nei
riguardi di sette agenti di P. S., che dalle indagini risulterebbero
responsabili di abuso di autorità e alcuni di essi anche di lesioni.
Ma gli Andressi
continuano a colpire imperterriti: in questo episodio troviamo
Alessandro (anche se nel primo articolo viene chiamato Carlo)
borseggiare in complicità con il già citato Attilio Orlandi, "el Buterin", (l'ex-amante di
Rosetta e fratello di quell'Arturo morto venti giorni prima).
13 g) Corriere del Pomeriggio,
sabato 23 maggio 1914 - pag. 7
Uno straniero borseggiato
in tram
Il signor Carlo Kayser,
un ricco signore tedesco di passaggio con la famiglia per la nostra
città, ieri si recò a visitare la Pinacoteca di Brera, e verso
le 11 volendo ritornare all'albergo montò su di un tram della linea
porta Volta-piazza del Duomo, prendendo posto sulla piattaforma
posteriore.
A un certo punto salirono
sul tram tre giovani che si fermarono sulla piattaforma anch'essi,
accanto al signor Kaiser [sic] il quale non avrebbe mai supposto la
sorpresa che gli sarebbe poco dopo toccata.
Infatti appena giunti in
piazza del Duomo i tre sconosciuti discesero dal tram in corsa e lo
straniero constatò subito dopo la sparizione dell'orologio d'oro con
le proprie iniziali incise e dell'analoga catenina che valevano
completamente 1200 lire.
Il signor Kayser, quando
si sentì urtare aveva portato istintivamente la mano sulla tasca
interna della giacca, ove custodiva il portafogli contenente 12.000
lire, e rassicuratosi di saperlo a posto non si avvide della
scomparsa dell'orologio.
Le indagini svolte ieri
stesso dal delegato De Benedetti, in base ai connotati forniti dal
signor Kayser, hanno portato all'arresto di tre pregiudicati, quali
presunti autori dell'audace borseggio: i giovani Attilio Orlandi detto
Buterin, Carlo Andressi, il fratello della famosa Rosetta,
avvelenatasi l'anno scorso mentre veniva accompagnata in Questura, e
un altro di cui la Questura tace il nome perché i sospetti contro di
lui appaiono meno gravi.
I tre arrestati saranno
posti oggi in confronto col derubato, per l'eventuale riconoscimento.
E il giorno dopo...
13 h) Corriere del Pomeriggio,
domenica 24 maggio 1914 - pag. 6
Borsaiolo riconosciuto
dal derubato
in un confronto in
Questura
In seguito al borseggio
patito in tram dal tedesco signor Kayser, erano stati arrestati quali
presunti colpevoli Orlandi Attilio detto Buterin amante di quella
famosa « Rosetta » che si avvelenò al momento del'arresto, e il fratello
di costei Andressi Alessandro.
Ieri mattina ebbe luogo
in Questura un confronto col derubato affinchè quest'ultimo vedesse
di riconoscere o meno nell'uno o nell'altro arrestato. colui che gli
aveva portato via l'orologio con catena d'oro.
Il confronto fu
drammatico e diede luogo ad un certo punto a una scena di violenza
per parte dell'Andressi. Costui, sostenendo ad alte grida la sua
innocenza, cominciò a menar pugni e calci alle guardie che lo
fiancheggiavano e, per essere immobilizzato, dovette esser legato!
Queste escandescenze furono anticipate, perchè il Kayser non aveva
indicato in lui il suo borseggiatore: ma aveva esplicitamente
riconosciuto nell'altro, cioè nell'Orlandi, l'autore materiale del
borseggio.
Dopo tale riconoscimento,
che concorda cogli indizi raccolti dalla squadra mobile, l'Orlandi fu
trattenuto in arresto. Per Andressi non risultò provato il sospetto
ch'egli abbia avuto parte nella mariuolesca impresa, ma fu anch'egli
trattenuto per le violenze e gli oltraggi.
A meno di un anno di
distanza dalla morte di Rosetta, dopo il mandato di comparizione per
sette agenti, arriva il rinvio a giudizio per due di loro.
13 i) Corriere della Sera,
domenica 2 agosto 1914 - pag. 5
Per la morte della “Rosetta„
Il rinvio a giudizio di
due guardie
L'istruttoria relativa
alla morte improvvisa, durante l'arresto, della ragazza Elvira
Andressi, Rosetta, ha avuto un supplemento richiesto dall'avv. Costa.
Il primo periodo istruttorio si era chiuso, come è noto,
coll'accertamento che la Rosetta si era avvelenata e coll'assoluzione
degli agenti che l'avevano arrestata. Il supplemento d'istruttoria,
invece, ha portato al rinvio a giudizio di due delle guardie per
lesioni lievi, lesioni evidentemente che non sono da mettersi in
relazione alla causa della morte.
Le guardie rinviate a
giudizio sono Mario Musti e Antonio Sanvito.
Il giudice « deplora il
loro operato giacchè, per quanto possa essere stato provocante il
contegno dell'Andressi che ebbe ad oltraggiarli, non è però
giustificato da nessuna necessità ed è tanto più deplorevole in
quanto si tratta di agenti di P. S. e di violenze esercitate contro
una donna ».
Le violenze, secondo alcuni testimoni, sarebbero
consistite in alcuni pugni e schiaffi dati all'Andressi allorchè
questa si ribellava.
Un altro episodio
violento, sempre nel 1914 vede protagonista un certo Angelo Andressi
"noto per appartenere a quella famiglia che ripetutamente ha
interessato le cronache dei giornali, segnatamente per la morte di
una giovane chiamata Rosetta". Un altro dei fratelli di Rosetta?
Un cugino? Siamo comunque sempre in via Vetraschi.
13 j) Corriere della Sera,
martedì 3 novembre 1914 - pag. 5
Scena di sangue in piazza
Vetra
Sei colpi di rivoltella
Non vi sotto state
vittime, ma vi tu molto rumore.
Da alcuni anni i coniugi
Luigi Buratti e Maria Guidotti, non più giovani, avevano preso
dimora in una stanza in via Vetraschi, 14. La loro pace domestica,
durata a lungo, è stata turbata da una quindicina di giorni per
l'apparizione di certo Antonio Del Mare, il quale aveva avuto in
affitto una stanza attigua alla loro.
Il Del Mare si comportava
come il migliore degli inquilini, ma in queste ultime sere aveva
avuto l'infelice idea di invitare a casa sua Angelo Andressi,
dimorante al n.31 della stessa via, e noto per appartenere a quella
famiglia che ripetutamente ha interessato le cronache del giornali,
segnatamente per la morte di una giovane chiamata Rosetta.
Sembra che l'Andressi, accompagnato da altri individui, si abbandonasse ad un chiasso
eccessivo tanto da disturbare i sonni pacifici dei coniugi Buratti.
Ne sorsero delle proteste da parte di questi ultimi, e dalle
controproteste da parte dell'Andressi e del suoi amici.
La contesa è degenerata
ieri in un fiero duello. Il Buratti incontratosi coll'Andressi lo
investì con ingiurie, quindi pose mano al coltello. L'Andressi cavò
di tasca la rivoltella e ne sparò tutti i sei colpi contro
l'avversario che cadde sanguinante.
In un attimo parecchi
teppisti affluirono sulla piazza. Il Buratti colpito alla fronte
riparò nella sua casa donde uscì poco dopo per recarsi all'Ospedale
Maggiore.
I medici gli
riscontrarono la frattura dell'osso frontale e giudicarono necessario
il suo ricovero immediato, ma il Buratti si oppose e preferì invece
seguire i carabinieri che lo condussero all'infermeria del Cellulare.
Egli infatti dovrà rispondere di minacce a mano armata.
L'Andressi subito dopo la
scena di sangue si allontanò ed invano è stato ricercato dalle
guardie inviate per trarlo in arresto.
E alla fine, arriva la
sentenza per la morte di Rosetta. Tutti assolti, come volevasi
dimostrare.
13 k) Corriere della Sera,
sabato 27 febbraio 1915 - pag. 7
PROCURA URBANA DI MILANO
La morte di “ Rosetta „
Moriva il 27 agosto 1913,
una giovane nottambula, Elvira Andressi detta « Rosetta », assai
nota negli ambienti della malavita milanese.
Essa si era avvelenata
dopo un grave episodio svoltosi al Carrobbio, durante il quale alcune
guardie di P. S. avevano tentato di trarla in arresto, come colpevole
d'oltraggio.
Il giornale Avanti! accusò allora apertamente le
guardie di abuso di poteri e di aver percossa l'infelice.
Ma dall'autopsia del
cadavere ordinata dall'autorità giudiziaria non furono rilevate che
lievi contusioni le quali non avevano avuto influenza alcuna sulla
morte della Andressi, avvenuta unicamente per volontario
avvelenamento.
Sulla responsabilità
degli agenti, circa le supposte percosse, il Procuratore del Re già
aveva fatto richiesta di assoluzione, ma il giudice avv. Banzi volle
che le accuse contro la polizia fossero vagliate alla luce di un
pubblico dibattito. Molta folla perciò dei quartieri dove la «
Rosetta » era conosciuta convenne ieri al processo.
Della decina di guardie
che in origine erano state denunciate, due sole, Mario Musti e
Antonio Santovito, dovevano rispondere di lesioni.
Alcuni testimoni, pur ammettendo di aver visto le guardie in borghese percuotere
brutalmente la « Rosetta » non hanno saputo identificarle.
La Parte Civile,
rappresentata dall'avvocato Ranza chiese la condanne delle due
guardie, ma, dopo la requisitoria del P. M. e la difesa degli avv.
Rebora, Ramella e Coridori, il Pretore avv. De Mita ha dichiarato
assolto il Musti per non aver preso parte al fatto ed il Santovito
per non provata reità.
14) Gli anni successivi
Dopodiché la famiglia Andressi esce dalla cronaca nera di Milano. Beh, quasi. Restano quattro episodi, l'ultimo dei quali quasi commovente. Di questi solo il secondo è certamente riconducibile ai familiari di Rosetta. Per gli altri diciamo che la correlazione è altamente probabile.
14 a) Corriere del Pomeriggio,
sabato 22 maggio 1915 - pag. 5
Un'aggressione sui
bastioni Venezia ?
Al funzionario di
servizio a S. Fedele si presentava ieri sera il calzolaio Enrico
Ardini di anni 25, da Busto Arsizio, e con aria stravolta faceva il
seguente racconto:
— Sono stato aggredito
e derubato del portafogli con 40 lire, dell'orologio d'argento e
della catena d'oro. E quel ch'è peggio è che il ladro mi si fingeva
amico! Questa sera mi ero recato a prendere il caffè in un esercizio
di corso Ticinese ove ho incontrato un tale, che altra volta conobbi
fugacemente e che mi disse chiamarsi Andressi. Era in compagnia di
una donna che mi ha presentato come sua moglie, e mi ha invitato ad
accompagnarli un po' dovendo recarsi alla Stazione Centrale. Senonchè
giunti sui bastioni Venezia. in prossimità del cavalcavia di corso
Principe Umberto mi son sentito colpire da un violento pugno sul
capo. Non mi ero ancora rimesso dallo stordimento che già il finto
amico mi è saltalo addosso e dopo avermi gettato al suolo mi ha
imbavagliato con un fazzoletto imbevuto di una costanza di odore
sgradevole: forse un narcotico. Certo è che io ho perduto i sensi e
quando mi sono riavuto non ho visto più nessuno ed ho constatato la
mancanza del portafogli e dell'orologio.
Il denunciante ha dichiarato
che il suo aggressore è un giovane lievemente zoppicante e ne ha
forniti i connotati. Resta ora alla polizia accertare quanto vi sia
di vero in questa curiosa avventura.
14 b) Corriere della Sera,
martedì 10 aprile 1917 - pag. 4
LA SOLITA SERIE DI FURTI.
(...)
— Quale colpevole di un
borseggio di 50 lire in danno di Antonio Lodi dimorante in via delle
Arti a Greco è stato arrestato il ventisettenne Edmondo Andressi fu
Eugenio, abitante in corso Ticinese 83. Si tratta di una vecchia
conoscenza della Questura. Anche questa, come altre volte, l'Andressi
diede in escandescenze, fracassando i vetri del corpo di guardia dove
era trattenuto.
14 c) Corriere della Sera,
venerdì 21 febbraio 1919 - pag. 3
Una rissa per
gelosia. — Luigi Adressi, [sic] di 34 anni, (via Arena 22),
pregiudicato, lamentava da tempo le simpatie di sua moglie per lo
straccivendolo quarantaduenne Mario Montauti (via Olocati, 33). I due
si incontrarono ieri nel pomeriggio in via Tibaldi e, dopo lo
scambio di qualche ingiuria, il marito oltraggiato colpì al capo con una catena da bicicletta l'avversario, il quale scaricò la sua
rivoltella — egli afferma — per legittima difesa ferendo al viso
l'Andressi. I pompieri trasportarono entrambi all'Ospedale, dove sono
piantonati.
14 d) Corriere della Sera,
mercoledì 10 febbraio 1926 - pag. 6
Il cappellino imbottito
Da parecchio tempo la
diciannovenne Maria Corbellini, fiorente macellala di Melegnano, che
tiene, col padre Giuseppe, un esercizio sulla piazza principale di
quella borgata, aveva notato la misteriosa sparizione di alcuni
piccoli risparmi che ella nascondeva nel cassetti e nello tasche
degli abiti. Il ladro doveva essere domestico, per quanto ribelle a
lasciarsi acchiappare. La giovane confidò la cosa al garzone dei
negozio, il diciassettenne Ambrogio Lucini il quale, a sua volta,
confessò che analoga sorte avevano subito 220 lire sue, che egli,
ospite della famiglia, aveva nascoste in un baule contenente i suoi
indumenti.
I sospetti caddero sulla
fantesca dei Corbellini, la ventiseienne Maria Andressi la quale,
interrogata in proposito, tanto si mostrò offesa da licenziarsi sui
due piedi, allegandosi presso certa Carolina Stoppini, pure di
Melegnano. Queste brusche dimissioni avvalorarono presso la
Corbellini l'idea che la troppo sensibile servente avesse veramente
qualche conto da rendere, e incaricò il maresciallo Casalini a
fungere da ragioniere. Il maresciallo invitò la Andressi in caserma
e, alle accuse esplicitamente rivoltele, si senti rispondere in tono
di arrogante meraviglia. Abituato a questo genere di difese il
Casalini osservò il cappello che la ragazza teneva in testa, e, per
quanto poco pratico di mode, gli parve che un certo risvolto
ornamentale fosse eccessivamente voluminoso.
In nome dell'estetica,
invitò la ragazza a scucirlo. La Andressi, indignata di quella
lezione di modisteria per lo meno fuori luogo, si rifiutò. Placido,
il maresciallo si dispose ad eseguire da solo l'operazione.
Stravaganze della moda! L'imbottitura era fatta di biglietti da
cinque e da dieci lire, compendio del misteriosi furti di casa
Corbellini. Arrestata, la Andressi confessò il reato e fu mandata al
Cellulare, luogo di opportuna meditazione.
15) La riscoperta di
Rosetta
La memoria della storia di Rosetta non è mai svanita del tutto, perlomeno a Milano. Ed a mantenerla viva è stata certamente soprattutto la canzone, di cui peraltro non si conosce con esattezza la data di composizione (è stata scritta nell'imminenza degli eventi o successivamente?) né la sua fortuna (Milly e i Gufi l'hanno riscoperta del tutto o semplicemente rilanciata?). Ad approfondimenti sulla canzone, come dicevamo, sono state dedicate diverse pagine web: ad
esempio quella de La Canzon Milanesa, ripresa anche dal sito Canzoni contro la guerra, e la pagina dedicata alla Rosetta su Wikipedia.
Questi tre siti attingono tutti a piene mani dal resoconto dell'avvenimento che più di tutti ha rilanciato l'interesse verso questa storia. Si tratta dell'articolo di
Luciano Visintin, uscito sul Corriere della Sera di lunedì 25
febbraio 1980 che racconta di un "miracoloso" ritrovamento da parte di un commerciante di libri. Questo Armando
Forcolini rovistando nei cassetti di suo padre Guido
(morto novantunenne pochi anni prima), aveva reperito una foto avvolta
in una pagina di quaderno su cui lo stesso padre aveva annotato:
"Rosetta, mi hai dato le più belle notti d'amore della mia
vita".
|
Corriere della Sera
lunedì, 25 febbraio 1980 |
Nel suo articolo Visintin, purtroppo, per completare il racconto di Forcolini utilizza come fonte principale un libro pieno di inesattezze: La bella Rosetta. Le donne di Milano ieri e oggi, scritto da Severino Pagani e uscito nel 1975 per le edizioni Virgilio. Questo fatto genera una serie di errori che si sono riprodotti pari pari fino a giorni nostri: a partire proprio dall'anno in cui si svolgono
gli eventi (sia nel libro di Pagani del 1975 che nell'articolo di Visintin del 1980) viene indicato erroneamente l'anno 1914 e non il 1913. Così
il giornalista del Corriere della Sera, che forse aveva cercato qualche pezza d'appoggio nell'archivio
del suo giornale alla data sbagliata, arriva quasi a "infamare"
il proprio datore di lavoro scrivendo "Il «Corriere della
Sera», con l'aria di guerra che tirava, non trovò spazio per la
notizia". E certamente non si trova nulla, se si cercano gli articoli
alla data sbagliata! Ovviamente il Visintin è solo parzialmente responsabile, sia perché l'origine degli equivoci è da attribuirsi al Pagani, sia perché, come dicevamo, all'epoca non era possibile, come invece si può fare
oggi, ricercare un articolo semplicemente digitando la stringa di
ricerca "Rosetta" o "Andressi" nell'archivio online del Corriere della Sera.
Per spiegarci ancora meglio, apriamo una piccola parentesi per fornire un breve elenco di errori in cui incorre Severino Pagani nel suo La bella Rosetta. Le donne di Milano ieri e oggi, un testo che, di fatto, a dispetto del titolo, alla Rosetta dedica solo cinque pagine e una foto (il resto del libro tratta di altre donne milanesi). Eppure in quelle cinque scarne pagine l'autore riesce a stipare un discreto numero di errori, a partire dalla ricostruzione della vita di Rosetta. Ci viene detto ad esempio che la Rosetta “lasciò presto il teatro di varietà si votò ad una professione più facile e redditizia”: beh, ora noi sappiamo che fu esattamente il contrario: negli ultimi mesi della sua vita la giovane aveva cercato, e con discreto successo, di emanciparsi dalla sua condizione precedente di prostituta, esibendosi a teatro come canzonettista. Ulteriore e peggiore confusione viene creata sulle circostanze della morte di Rosetta, fornendo tre diverse versioni: Rosetta sarebbe stata colpita a morte da un questurino inferocito per un rifiuto della giovane ad accompagnarsi con lui; oppure presa in una retata e picchiata a morte in Questura; oppure ancora, si sarebbe suicidata. Pagani propende per la prima: il questurino inferocito, che non è del tutto infondata, ma andrebbe circostanziata. L'ultimo punto, apparentemente banale, ma foriero di errori è proprio la data della morte di Rosetta. Pagani sbaglia SIA il giorno, introducendo – e sembra incredibile – una terza versione: il 24 agosto, ma soprattutto, come dicevamo, SBAGLIA L'ANNO: scrivendo 1914. Un errore che, come si diceva, avrà pure ostacolato le sue eventuali ricerche negli archivi dei giornali per ricostruire un po' meglio la vicenda, già intricata di suo, con qualche dato di fatto reale.
Fatto sta che, partendo da Pagani, anche Visintin contribuisce a cristallizzare una serie di dati erronei mescolati a qualche informazione esatta, rendendo difficile discernere cosa sia corretto e cosa sia romanzato. Cerchiamo di mettere
ordine.
Le fonti dell'articolo
di Luciano Visintin sono tre:
a) Il resoconto dello
stesso Armando Forcolini (colui che nel 1980 ha ritrovato la foto
della Rosetta) che riferisce al giornalista i racconti di suo padre
in materia;
b) "Incerte
biografie" (di fatto il libro di Severino Pagani);
c) Tale Raffaele Bagnoli
"fine cultore di costume meneghino".
La prima delle tre
fonti, essendo soltanto di seconda (e non di terza) mano, è forse ancora la più
attendibile. Di questa prima fonte, Armando Forcolini, il
Visintin, apprende qualcosa sugli esordi della Rosetta, che era
cliente del negozio del padre dello stesso Forcolini, il signor Guido.
"Forcolini padre,
nativo di Venezia, era venuto a Milano con la moglie Maria, di fiera
razza veronese, e con una smania di paternità che lo portò a
generare - grazie al decisivo contributo della sposa - tredici figli,
tra i quali Armando. Aprì bottega in via Torino 57, dove c’è
ancora [nel 1980 n.d.r.] un negozio, condotto da un nipote, con il suo cognome.
Fu il primo, a Milano, a
vendere calze colorare alle donne che all'inizio del secolo le
portavano nere. Colorate, per modo di dire: beige, fumee, noisette,
miele (termine che però allora non si usava). E tra le sue clienti
c'era appunto la Rosetta: non comprava soltanto calze, ma anche
golfini, capi di biancheria. Forcolini la serviva volentieri e con
zelo, tanto che la moglie in negozio c'era di rado, avendo sempre un
figlio da allattare. «E sa come ci allattava? - rivela Armando - Con
la pipa in bocca. Era una donna eccezionale».
Spesso, la Rosetta si
presentava nel negozio di via Torino insieme con la madre della quale
si sapeva che era forte bevitrice, scostumata e avida di denaro.
Girava voce - pare addirittura che lei se ne vantasse, sfacciatamente
- che avesse venduto la figlia a un ricco signore, quando era ancora
una ragazzina di tredici anni, spianandole così la via del
marciapiedi."
Sempre sugli esordi della
Rosetta, Visintin riporta anche la versione di "incerte
biografie": "Incerte biografie dicono invece che la
Rosetta (per l'anagrafe Elvira Andressi) avesse preso la carriera
molto alla larga, esibendosi come canzonettista al Sammartino in
piazza Beccarla, con il nome d'arte di Rosetta de Woltery. Ma questo
ai nostri fini importa poco. Di sicuro c'e che la Rosetta abitava in
piazza Vetra e che lì, come dice la canzone «batteva»."
Anche sulla fine della
povera Rosetta abbiamo due versioni alternative: quella riportata a
Visintin da Armando Forcolini "In casa mia (...)
se n'è parlato per anni. Si diceva che lei passasse dal Carrobbio in
carrozza, con il suo amante fisso, diciamo un “rocchettee" [un
magnaccia n.d.r.]. Un poliziotto li ferma, vuol vedere i documenti
dell'uomo. Lei si intromette; e siccome l'agente era innamorato di
lei, che lo respingeva, lui tira fuori il suo stiletto e, insomma,
l'ammazza»" e quella di Raffaele Bagnoli, il "fine cultore di costume meneghino": "Secondo il Raffaele Bagnoli fine cultore di costume meneghino - sotto le cui finestre in corso Ticinese, angolo Vetraschi, la Rosetta andò a trascinarsi morente, in quella notte piena di urla e di orrore, perché allora la morte di una prostituta era ancora qualcosa - la poveretta fu invece ammazzata a colpi di calcio di moschetto. Sicuro è che fu ammazzata, proprio per gelosia, e che al funerale la malavita milanese partecipò con fiori, lacrime e spavalda ostentazione."
Curiosamente sotto la
foto della Rosetta, sulla pagina del Corriere del 25 febbraio 1980 è
riportato il testo della canzone, ma ecco che nella terza versione dell'incipit spunta una terza data: al 26 e al 13 agosto adesso si aggiunge anche il 24, preso direttamente dal Pagani.
Le cose più interessanti dell'articolo restano: la comparsa della madre, di cui non sapevamo
molto, vista sotto una luce particolarmente trucida (e potevamo anche arrivarci visto l'esito della sua opera pedagogica) e alcune
informazioni aggiuntive.
Sfortunatamente, come dicevamo, l'articolo
di Visintin è la fonte principale della maggior parte dei siti che si sono occupati della materia. La stessa voce di Wikipedia dedicata alla povera Rosetta, prima del nostro intervento, ancora riportava l'anno 1914.
Ma ci sono alcune eccezioni come il blog
Storie di Milano di Paolo Motta che, assieme alle ricostruzione rende conto anche di altre versioni
sulla morte di Rosetta e del grande lavoro d'indagine svolto da Leonardo
Sciascia. Riproduciamo qui alcuni stralci del post che rappresenta uno dei più accettabili tra quelli che si trovano in rete. Dopo aver riferito delle due versioni proposte da Visintin, Motta ci parla di una terza versione: "Nella notte del 13
agosto (o secondo altri il 24 o del 26) del 1914 la Rosetta venne
uccisa. Incolpato dal popolo è
il questurino Musti, calabrese o napoletano, che innamorato della
Rosetta si vede respingere ogni volta, sino appunto ad una calda
notte d'estate, quando il Musti, respinto per l'ennesima volta, si
vendica colpendo la Rosetta alla testa col calcio di un fucile sino a
renderla agonizzante.
Viene portata gravissima
al Niguarda, confida ad altre prostitute accorse al capezzale
d'essere stata picchiata ma il Musti nega ogni addebito e anzi
rilancia dicendo che la Rosetta ha tentato il suicidio.
Rosetta muore e l'intera
"ligera", la malavita del Ticinese, insorge.
Quando vengono celebrati
i funerali alla Vetra l'intera malavita milanese si presenta vestita
di nero. Dietro al feretro della Rosetta sfilano tutte le prostitute
milanesi vestite di bianco.
Minacce di morte vengono
riferite al questurino Musti, che viene accusato dalla malavita
d'essere un camorrista.
Finito il grandioso
funerale la Rosetta entra direttamente nella leggenda della mala
milanese con una canzone che in parecchie versioni sarà cantata per
decenni in tutte le osterie milanesi".
Un'altra versione con la
data errata e incerta, come già quelle del Visintin. Ma poi Motta ci
segnala un'ulteriore versione, e con questa siamo alla quarta, molto più
attendibile:
"Nei primi anni '80
interviene però sull'argomento niente meno che Leonardo Sciascia.
Con una profonda ricerca negli archivi di Corriere [quella che
Visintin aveva omesso di fare n.d.r.], Avanti! e altri quotidiani
locali di inizio secolo e grazie alle testimonianze tramandate scopre
che la storia della Rosetta è differente. Il nome cambia in Elvira
Andrezzi, anni 19, abitante in via Gaudenzio Ferrari 7. La cronava
[sic] dell'Avanti! riporta un suo tentativo di suicidio avvenuto il 26
agosto 1913 usando del Sublimato Corrosivo (Cloruro Mercurico),
allora molto "di moda" come metodo per togliersi
rapidamente la vita. La Rosseta [sic] ricoverata al Niguarda a notte
fonda muore il mattino dopo. La polizia sostiene il suicidio della
prostituta tramite veleno. La lavanda gastrica non trovò alcuna
traccia di sostanze velenose. Rosetta morì alle 11:30 del mattino.
Sciascia riesce infine a scoprire i fatti: Rosetta, due amiche e 4
clienti [Sciascia non parla di clienti, ma di giovanotti n.d.r.] si dirigono verso via Vetraschi 22 dove vive una sorella di
Rosetta. Fermati al Carrobbio da alcuni questurini vengono invitati a
"circolare". Al loro rifiuto i questurini chiamano una
ventina di colleghi che a manganellate assalgono il gruppetto.
Rosetta viene colpita in testa e sul petto. Cade a terra, colpita
anche da calci, sviene. Gli altri vengono arrestati. Rosetta viene
soccorsa dal fratello zoppo, Arturo, un facchino della Vetra. Ma nel
momento in cui i due stanno per tornare verso via Ferrari i
questurini tornano e li rimassacrano a manganellate. Rosetta cade
ancora e batte violentemente il capo contro il selciato. Intanto una
folla si è raggruppata ad osservare il pestaggio. Alle finestre
della Vetra si accalcano le persone. I poliziotti tirano fuori le
pistole e minacciano tutti i possibili testimoni. Arturo è
arrestato, Rosetta portata in ospedale. Il mattino dopo la sorella di
via Vetraschi è l'unica ammessa a visitarla. Rosetta riesce solo a
dirle "Mi hanno ammazzata". Perde poi i sensi e morirà
poche ore dopo. All'obitorio si radunano migliaia di persone, la
polizia stenta a mantenere l'ordine. Alle ore 16 dello stesso 27
agosto il corte funebre si dirige verso il Musocco. Il prete celebra
il funerale, a riprova che non vi fu alcun sucidio. Il mattino
successivo la Questura di Milano manda dozzine di agenti a compiere
una enorme retata alla Vetra e al Ticinese. Sono arrestati decine di
presunti appartenenti alla Ligera. O forse scomodi testimoni."
16) La ricostruzione
di Leonardo Sciascia
Curiosamente toccherà proprio allo stesso Visintin, il cui articolo del 1980 aveva contribuito a diffondere alcuni errori, a lanciare tre anni più tardi, sempre sul Corriere della Sera, il lavoro di Leonardo Sciascia, che, come abbiamo visto, effettua una ricognizione storica molto accurata. Nel Corriere della Sera di domenica 4 dicembre 1983 troviamo infatti un doppio un un estratto del libro di Leonardo Sciascia - Storie della povera Rosetta preceduto da un'introduzione a firma l. vi. (Luciano Visintin). Nota: l'immagine dell'archivio del Corriere della Sera mostra una pagina parzialmente piegata rendendo illeggibile qualche parola dell'introduzione di Visintin che qui indichiamo con (...).
16 a) Corriere della Sera,
domenica 4 dicembre 1983 - pag. 27
Leonardo Sciascia
ricostruisce una delle più torbide e appassionanti vicende della
cronaca milanese
Così ammazzarono
Rosetta, la bella di piazza Vetra
Secondo la versione
ufficiale la sciantosa che «batte a la Colonnetta» morì suicida
per pastiglie di sublimato - Ma la voce popolare, accreditata anche
dall'«Avanti!», sostenne che venne uccisa dai poliziotti - «Quando
le guardie in divisa estrassero le daghe la prima piattonata colpì
al petto l'Andressi con tanta violenza che la disgraziata ebbe un
grido di spasimo e cadde al suolo»
La Povera Rosetta —
quella che battea la Colonnetta in piazza Vetra — è una delle
figure piu radicate nella tradizione popolare milanese. Colorata di
romanticismo, dedicata al naturale istinto di ribellione
all'ingiustizia e al sopruso, pervasa (…)tre di amorose allusioni,
è una figura che Milano ha ormai stabilmente inserita nella sua
agiografia pio profana ma anche Sentita. A ciò ha contribuito molto
anche la voce della Milly, quel suo cantare roco e appassionato che
celebrava il (...)a di una morte misteriosa e affascinante.
Il Mistero di questa
morte ha finito con il conquistare anche Leonardo Sciascia che, dopo
tanti enigmi della sua Sicilia, ha (...)ttato anche la «Storia della
povera Rosetta», una storia milanese ma imparentata con il Sud, come
quasi tutto a Milano. Il libro uscito dalla stamperia di Franco
Sciardelli con incisioni di Franco Rognoni, è in centoventi copie
con numeri arabi e venticinque con numeri romani. Una sciccheria
introvabile, se non fosse per la Banca del Monte di Milano che ha
reso possibile (...) il proprio contributo un'edizione corrente.
Sciascia non ha concesso molto alla leggenda, solo quel minimo che le
è rimasto appiccicato e che mai si potrà togliere. Il testo si basa
su una documentazione oggettiva, soprattutto, giornali dell'epoca e
in particolare sull'«Avanti!», che ebbe il coraggio di smentire le
versioni ufficiali. Stralciamo qui, dal libro, il racconto di come
morì Elvira Andressi detta Rosetta, in quella «notte scura» del
1913 che fece di lei, canzonettista e cosi bella da poter trovarsi
facilmente un protettore, ma troppo amante della «ligera», un
malinconico simbolo di costume milanese. (l. vi.)
|
Corriere della Sera, domenica 4 dicembre 1983 |
Tentò di stabilirla, la
verità dei fatti, l'«Avanti!» del 28 agosto Come e perché è
morta una e canzonettista Può una pastiglia di sublimato uccidere
donna in poche ore?; i poiché i milanesi leggevano loro giornali,
compreso l'«Avanti!», della ribellione al Carrobbio e del tentato o
finto suicidio di una giovane mondana, (...) Elvira Andressi
all'Ospedale Maggiore moriva.
Che il resoconto dei
fatti pubblicato dall'«Avanti!» il 28 agosto si avvicini alla
verità, ci sembra di poterlo affermare dall'atteggiamento degli
giornali nel riassumerlo: cauto, guardingo, senza avanzare dubbi o
smentita. E tutti danno notizia di una rigorosa inchiesta ordinata
dal questore commendator Cosentino: «giustamente impressionato —
dice il "Corriere della Sera" — dalle gravi affermazioni
dell'«Avanti!»..
L'inchiesta del giornale
socialista (che riconosceva di aver pubblicato il giorno prima la
versione comunicata dalla questura senza controllarne la verità,
muoveva dal registro dell'ospedale, su cui il ricovero dell'Andressi
era stato così annotato «Elvira Andressi di anni 19, abitante in
via Gaudenzio Ferrari 7, a scopo suicida ingoiava 3 pastiglie di
sublimato corrosivo (?). Lei dice perché arrestata. Accompagnata
dalle guardie Musti e Leone». Quel punto interrogativo tra parentesi
stava a significare, secondo l'«Avanti!», che nessuna traccia di
sublimato era stata rinvenuta nel lavaggio gastrico immediatamente
praticato. E si citava, a conferma di questa interpretazione, il
cronista del «Secolo»: «Come la donna fu in carrozza, ingoiò
alcune pastiglie di sublimato. Ma come fu arrivata alla casa di
salute si poté stabilire che aveva simulato il suicidio».
Ricoverata all'una e
trenta, alle undici e trenta la ragazza moriva: dieci ore di atroce
agonia, piantonata dalla polizia e senza un familiare che
l'assistesse. Il fratello Luigi, che in mattinata si era recato
all'ospedale, era stato respinto. Solo più tardi, agli ultimi
momenti, era stata ammessa la sorella Maria. Dichiarò che l'Elvira
altro non diceva che «Mi hanno ammazzata! Mi hanno ammazzata!» e di
non aver potuto vedere altro, sul corpo della sorella, che una larga
ecchimosi al braccio. Le fu poi impedito di scoprirla: a che non
vedesse — facile illazione
dell'«Avanti!» e nostra — altre tumefazioni.
Ma che l'Elvira morisse
per essere stata duramente picchiata e non per il sublimato, la
sorella Maria non aveva dubbio: aveva in parte assistito, la sera
avanti, a quella che la questura e i giornali avevano definito
«ribellione»; e non era la sola a darne tutt'altra versione. «Al
largo Carrobbio, martedì notte, la Andressi era ferma con altre due
donne e quattro giovanotti. Forse cantavano —questa affermazione
della questura è smentita da parecchi abitanti di piazza Carrobbio
che dalle finestre assistettero al fatto — certo è che l'Andressi
era diretta in casa di una sorella maritata che abita in via
Vetraschi 22. Due agenti in divisa della III sezione di PS si
avvicinarono alle donne ed ai quattro uomini intimando loro di
circolare. Ma il gruppo non si arrese all'invito. I due agenti, dopo
aver parlamentato vivacemente con gli uomini, si allontanarono. Poco
dopo, da via Torino, sopraggiunge un pattuglione della squadra mobile
composto di oltre venti agenti parte in divisa e parte in borghese:
gli agenti della III sezione si unirono al pattuglione, muovendo così
all'assalto dei giovanotti e delle donne. Essi furono invitati
nuovamente ad allontanarsi: ma ancora si rifiutarono affermando che
di nulla si erano resi colpevoli. [Nell'originale dell'Avanti! "resi responsabili" n.d.r.] Il rifiuto inasprì gli agenti che,
forti del numero, si scagliarono sui malcapitati: le guardie in
divisa estraendo le daghe e distribuendo piattonate all'impazzata.
«Le grida avevano
richiamato dalle strade adiacenti delle persone che restarono in
distanza, come semplici testimoni; e molta gente era, svegliatasi,
accorsa alle finestre. E' così che ci risulta, che quando le guardie
in divisa estrassero le daghe la prima piattonata colpi al petto l'Andressi con tanta violenza che la disgraziata ebbe un grido di
spasimo e cadde al suolo svenuta».
Arrestati i quattro
giovani, il pattuglione non si curò delle due donne. L'Andressi
restò a terra, svenuta: e fu soccorsa dal fratello Arturo che,
recandosi al lavoro (faceva il facchino al Verziere), si trovò a
passare. Arturo era il fratello «buono»: lavoratore, incensurato.
L'«Avanti!» lo dice zoppo, deforme, debole; ma la debolezza mal si
accorda col mestiere di facchino al mercato del Verziere. Zoppo era
di certo, comunque. Arturo chiese aiuto a due giovani e, insieme,
portarono la ragazza, che rinveniva, verso piazza Vetra. Lì, prima
di entrare in via Vetraschi, si fermarono: e l'Elvira, appoggiandosi
alla ringhiera che divideva la piazza dalla via, al fratello che le
rimproverava di essersi trovata in quella colluttazione tra
giovinastri e polizia stava affannosamente dando le sue
giustificazioni, quando improvvisamente sopraggiunse mezzo
pattuglione che si diede a picchiare furiosamente il povero Arturo
ammanettando e due giovani che volevano difenderlo.
Invano Arturo gridò che
nella zuffa del Carrobbio lui non c'entrava per nulla: fu buttato a
terra, preso a calci. Le grida della sorella — «Lasciatelo,
vigliacchi! E' un povero zoppo! Non vedete che è uno zoppo?» —
fecero sì che lo lasciassero: ma per volgersi contro di lei. «Si
scagliarono, ormai accecati da una brutalità cieca e bestiale, sulla
Rosetta. Uno degli agenti aveva estratto la rivoltella e col calcio
di essa colpì al petto la povera donna che barcollò, tramortita, e
cadde riversa battendo con la testa sul selciato: un colpo sordo, che
sembra le abbia prodotto una ferita alla nuca. A questo punto,
sopraggiunsero altri agenti, uno dei quali gridò: "Ammazzatela,
è una prostituta".
«Gli aggressori
ascoltarono il bieco incitamento: la donna fu colpita da
violentissimi calci, uno dei quali alle parti genitali. che le fece
emettere un acuto grido di spasimo; poi la povera vittima pianse,
scongiurò di risparmiarla. Ma invano: la poliziottaglia ormai non
aveva alcun ritegno. Dalle finestre si udivano animati e ostili
commenti: gli agenti, con la rivoltella in pugno, intimarono a tutti
di rientrare e di chiudere le finestre: non volevano testimoni. E si
udì un frastuono di vetrate chiuse in fretta...». Di peso, la
ragazza fu poi portata in piazza Carrobbio: forse per trovare un meno
di trasporto, forse per far credere a una specie di unità di luogo e
tempo nello svolgimento dei fatti. Da lì, dopo un momento di
indecisione — portarla in questura. alla guardia medica di via
Cappellari o all'Ospedale Maggiore? — la carrozza su cui l'avevano
adagiata si mosse verso l'Ospedale. E fu forse nel momento in cui le
guardie erano indecise che la ragazza, a promuovere la decisione di
portarla in ospedale, finse o davvero tentò di suicidarsi. Leonardo
Sciascia.
Anche nel testo integrale del 1983, Sciascia - oltre a darci qualche
ulteriore informazione anagrafica che abbiamo ricordato più su - fondamentalmente sposa la tesi
"colpevolista" nei confronti della polizia, ovvero quella esposta dall'Avanti! nell'articolo del 28 agosto, citandone larghi
estratti, anche se poi resta col dubbio di tutti: Rosetta ha davvero
ingerito le pastiglie o ha fatto solo finta per farsi portare
all'ospedale invece che in questura? E poi avanza le stesse perplessità del giornalista dell'Avanti! a proposito della testimonianza del Radice (quello
che aveva visto le ecchimosi di Rosetta la sera prima): « non sa
trovare modo migliore di spendere i propri quattrini, fuor di quello
di frequentare i poliziotti di mestiere »: non un confidente della
polizia, dunque, ma un maniaco, un mitomanie. Del resto, per assurdo, anche i
risultati – ufficiali e non credibili — dell'autopsia venivano a
smentire il Radice: secondo il referto il cadavere di Elvira Andrezzi presentava infatti soltanto « lievi abrasioni ».
Interessante poi l'approfondimento di Sciascia sul veleno. Lo scrittore siciliano sottolinea che il
sublimato corrosivo allora era un veleno da borsetta molto diffuso e
che - a differenza dell'arsenico utilizzato per avvelenare gli altri
- era spesso utilizzato nei suicidi (tentati o realizzati).
Sciascia aggiunge anche
interessanti considerazioni a margine del funerale di Rosetta: il fatto che
non fossero stati negati i funerali religiosi a una donna considerata suicida dalle autorità voleva dire o che i preti al suicidio non
credevano o che al capezzale della morente avessero colto la
confessione del finto suicidio o del pentimento. "Comunque, la
presenza dei preti contribuiva, tra la gente della Vetra che seguiva
il funerale, ad alimentare l'incredulità nei riguardi della versione
poliziesca e l'odio verso gli spietati picchiatori della squadra
mobile. Ma la polizia stava sull'avviso, a impedire che la
mormorazione crescesse e l'odio si manifestasse: la sera stessa del
funerale, un pattuglione della III sezione operava degli arresti nel
rione di porta Ticinese e specialmente in piazza Vetra e in via
Vetraschi. Di tali arresti, la questura negò ogni ragguaglio ai
giornali; ma i giornalisti riuscirono a scoprire che tra gli
arrestati era un fratello della Rosetta, Alessandro: e alcuni
assistettero al suo trasferimento, alle tre della notte, dalla
questura al manicomio. Poiché come inebetito altro non diceva che «
Rosetta, Rosetta », la questura se ne lavò le mani trasferendolo al
manicomio: dove, a quanto pare, lungamente rimase. Altro arresto con
nome e cognome fu in grado di segnalare l'« Avanti! »: il manovale
Giovanni Gavardoni fu Carlo, di anni 43. Ma arrestato, costui, in
piazza del Duomo; e perché « commentava ad alta voce la morte della
Rosetta ».
Le ultime due note che
ricaviamo da Sciascia sono relative alla canzone e a Musti, che era stato accusato da Rosetta di persecuzione, ma di cui non
sapremo mai se ne fosse veramente attratto e se sì, in quale
modo. Di certo non mi sembra che esistano molti elementi per confermare che
ne fosse innamorato, come molti affermano. Questo comunque è quello
che scrive Sciascia:
I versi nacquero per
adattarsi alla musica di una famosa canzone militare: Il ventinove
luglio / quando matura il grano / è nata una bambina / con una rosa
in mano. Molte le varianti e le aggiunte; ma non sarebbe difficile
ristabilirne il testo: che è probabile sia venuto su in una qualche
osteria della Vetra, estemporaneamente o per collaborazione, mentre
compianto e rancore erano ancora vivi. È integralmente, una canzone
della « ligera », cioè di quel tipo di malavita cittadina e di
piccolo cabotaggio » che vive ai margini della società, ha una
propria e particolare visione del mondo, dei particolari princìpi,
un particolare gergo e una certa fierezza riguardo alla propria
condizione. Nella canzone, insomma, Rosetta viene interamente
recuperata alla « ligera ». E in ciò la malavita finisce con
l'essere d'accordo con la questura. Ed ecco il testo come lo riporta
Nanni Svampa ne La mia morosa cara (ma abbiamo preferito, nel primo
verso, sostituire al « tredici di agosto » il « ventisei »:
accettando la variante con cui la cantava Milly; e ovviamente): Il
ventisei di agosto / in una notte scura / commisero un delitto / gli
agenti di questura. / Hanno ammazzato un angelo / di nome la Rosetta
/ era di piazza Vetra / battea la Colonnetta. Chi ha ucciso la
Rosetta / non è della ligera / forse viene da Napoli / è della mano
nera. / Rosetta mia Rosetta / dal mondo sei sparita / lasciando in
gran dolore / tutta la malavita. / Tutta la malavita / era vestita in
nero / per compagnar Rosetta / Rosetta al cimitero. / Le sue compagne
tutte I eran vestite in bianco / per compagnar Rosetta / Rosetta al
camposanto. / Si sente pianger forte / in questa brutta sera / piange
la piazza Vetra / e piange la ligera. / Oh guardia calabrese / per te
sarà finita / perché te l'ha giurata / tutta la malavita. / Dormi
Rosetta dormi / giù nella fredda terra / a chi t'ha pugnalato I noi
gli /areni la guerra. È evidentemente in contraddizione con la
precisa indicazione della « guardia calabrese » il dubbio che
l'assassino di Rosetta possa esser venuto da Napoli e dalla « mano
nera »: ma per gli italiani del nord da Roma in giù tutto può
esser Napoli o Calabria o Sicilia. Forse, a ripristinare il testo
originale, la quartina va sostituita da quell'altra: il suo fratello
Antonio / giurò di far vendetta I ma loro l'han rinchiuso / in una
cella stretta, che certamente vuoi dire dell'arresto e del ricovero
in manicomio di Alessandro Andrezzi.
In quanto alla « guardia
calabrese », con ogni probabilità si allude all'agente Musti che
l'« Avanti! » apertamente accusa di essere stato un persecutore
della ragazza. Si può arguire che aspirasse a proteggerla e,
respinto, in tutti i modi cercasse di vendicarsene: da ciò il
sovrapporsi, alla sua immagine di questurino, di quella d'inviato
d'altra malavita, della « mano nera » napoletana. Ad ogni buon
conto, si era provveduto a trasferirlo dalla questura di Milano a
quella di Genova.
(...)Nel processo in questione, ad accusa della Rosetta e a convinzione dei giudici, una istruttoria si sarebbe dovuta aprire sul comportamento della polizia e dell'agente Musti in particolare: lo stesso Musti che ritroveremo ad accompagnare la Rosetta all'ospedale, il che vuoi dire che del pattuglione dei picchiatori faceva parte.
Non sappiamo da quale articolo dell'Avanti! Sciascia ricavi l'accusa a Mario Musti di essere stato un persecutore della ragazza. Di certo sappiamo che con Leoni è stato uno dei due agenti ad accompagnare la ragazza all'Ospedale e con Santovito uno dei due ad essere accusato delle percosse. Di più, dai dati in nostro possesso, non risulta.
17) Conclusioni. Qui si conclude la nostra lunga cavalcata su questo episodio che si presta a svariate letture:
abuso delle forze dell'ordine, femminicidio, storia esemplare della
ligèra. Anche se le abbiamo dato un titolo legato a Milano, pensiamo
che questa storia possa avere carattere universale. Restano aperti
enormi interrogativi:
- Appurato che Rosetta è
stata picchiata e che molto probabilmente è morta di quello, quanto
effettivamente sappiamo della sua simulazione con le pastiglie di
sublimato (che pure - a detta di alcuni testimoni - lei portava in
borsetta come molte donne di quell'epoca)? Non le aveva? Le aveva e
non le ha ingoiate? Le ha ingoiate e sputate? Ha fatto solo finta di
ingoiarle per farsi portare in ospedale invece che in questura?
Oppure è tutta è una messa in scena della polizia? In fondo è
molto strano persino che le sia venuto in mente di ingoiarle in quel
frangente.
- Quanto era serio il suo
recente tentativo di cambiare vita? Da Sciascia sappiamo che aveva debuttato in teatro il 21 marzo 1913, da quel momento alla sera sua morte sarebbero passati solo centosessantasette giorno: era poi andata davvero al Teatro
Margherita a Roma? Aveva smesso del tutto di fare la vita? Quella sua uscita a così tarda ora, non era segno che forse non aveva ancora sposato
del tutto l'idea di fare la canzonettista? E la nuova abitazione -
piuttosto grande - in via Gaudenzio Ferrari, 7 a cosa le serviva se non per ricevere clienti? Era
magari stata comprata con parte del bottino della rapina
all'oreficeria Archenti - ammesso e non concesso che lei e Orlandi ne fossero davvero stati implicati (aldilà dell'assoluzione)? E i due
stavano ancora assieme? Molto probabilmente no, visto che - come
riporta Sciascia - Elvira aveva abitato solo per alcuni mesi del 1912
all'indirizzo di via Espinasse, 2 [viale Carlo Espinasse]
dell'Orlandi (vedi qui sotto, in appendice), ma forse si erano spartiti il bottino. E, come ci domandavamo, lui di Rosetta era stato l'amante, il protettore o entrambe le cose?
- E questo Mario Musti
chi era? Un agente particolarmente scrupoloso? Un torturatore? Uno
spasimante respinto? Un cliente abituale che la voleva tutta per sé?
Un poliziotto dalla scarsa moralità che ambiva a diventarne il
magnaccia? O forse soltanto un agente violento? Quanto c'è di
provato in questa voce che fosse invaghito di Rosetta? (Per me non
molto). Pare però che, per quanto fosse andato assolto, venne
trasferito da Milano a Genova, il che qualche indizio può forse fornirlo.
Insomma, anche se il
grosso degli eventi appare piuttosto chiaro, aldilà delle verità
ufficiali, restano molti piccoli e grandi dubbi aperti che gli
elementi raccolti non sono in grado di stabilire definitivamente e
che ognuno di noi è chiamato a interpretare seguendo la propria
sensibilità.
Chiudiamo da dove eravamo partiti, con una curiosità sulle date: in un ulteriore articolo del Corriere della Sera, uscito il 22 ottobre 1986 si parla dei delitti della Milano degli anni Trenta e si cita, come esempio precedente agli anni Trenta, il caso della povera Rosetta, situandolo in data 29 agosto, aggiungendo pertanto un quinto giorno come data di morte di Rosetta, dopo il 13 e il 26 della canzone, il 24 della didascalia dell'articolo del Corriere della Sera del 1980 e il 27, giorno effettivo della sua morte, unica data corretta.
Appendice I) Mappa del Touring Club Italiano del 1914 con i luoghi della storia di Rosetta
Appendice II): Dati
biografici di Elvira Andrezzi
Il 31 marzo 2017 ho
ottenuto presso il Comune di Milano i documenti relativi alla nascita
e alla morte di Elvira Andrezzi che confermano in larghissima parte
quanto già pubblicato a suo tempo nei Cenni biografici di Elvira
Andrezzi (di Leonardo Sciascia e che riproduco di seguito. L'unica
differenza è che negli archivi dell'Ospedale Elvira viene definita
diciottenne al momento della morte, mentre in Comune è ancora
diciassettenne (in quanto mancavano cinque giorni al compimento del
diciottesimo anno).
I certificati e gli atti
di stato di civile (pubblicabili in quanto sono trascorsi oltre
settant'anni e non sussistono particolari esigenze di tutela).
II a) Atto di nascita di
Andrezzi Elvira
(L'anno
millenovecentonovantacinque addì cinque di settembre a ore
pomeridiane tre e minuti __, nella Casa comunale avanti di me Cav.
Dottor. Carlo Tedeschi, Segretario, Delegato del Sindaco con anno
primo gennaio, scorso anno, debitamente approvato, Uffiziale dello
Stato Civile del Comune di Milano è comparso Andrezzi Eugenio, di
anni trentotto: facchino, domiciliato in Milano, il quale mi ha
dichiarato che alle ore antimeridiane una e minuti __, del dì primo
del corrente mese, nella casa posta in via Arena al numero 33, da
Rainoldi Genueffa, casalinga, sua moglie, seco lui convivente, è
nato un bambino di sesso femminino che non mi presenta, e a cui si dà
il nome di Elvira. A quanto sopra e a questo atto sono stati presenti
quali testimoni Crivelli Giuseppe di anni cinquantasei: portiere e
Ghioni Alessandro, di anni quaranta: portiere, entrambi residenti in
questo Comune. Il dichiarante è stato da me dispensato dal
presentarmi il bambino per caldo, dopo essermi altrimenti accertato
della verità della nascita. Letto confermato e sottoscritto Andrezzi
Eugenio, Crivelli Giuseppe, Ghioni Alessandro, Carlo Tedeschi.
II b) Atto di morte di
Andrezzi Elvira (27/8/1913)
L'anno
millenovecentotredici, addì trenta di Agosto a ore antimeridiane
otto e minuti quaranta nella Casa Comunale, io Virginio Fantoni
fungente da Segretario delegato del Sindaco con atto primo gennaio
millenovecentododici approvato, Uffiziale dello Stato Civile del
Comune di Milano, avendo ricevuto dall'Ospedale Maggiore un avviso in
data 28 corrente mese relativo alla morte di cui in appresso, e che,
munito del mio visto, inserisco nel volume degli allegati a questo
registro, dò atto che a ore antimeridiane undici e minuti trenta del
giorno ventisette Agosto corrente nel suddetto ospedale è morta
Andrezzi Elvira di anni diciassette, cantante, residente e nata # da
fu Eugenio e da Rainoldi Genoeffa, Nubile. Al segno # aggiungasi: a
Milano.
Virginio Fantoni
II c) Certificato di morte di
Andrezzi Elvira (27/8/1913)
Anno 1913 Numero 0924
Registro 02 Parte 2 Serie B
ANDREZZI ELVIRA
residente in Milano
nata in Milano
di anni 17
stato civile nubile
e' morta il giorno
27/08/1913
in Milano
II d) Certificato di morte di
Andrezzi Eugenio (16/1/1916)
Anno 1913 Numero 0082
Registro 02 Parte 2 Serie B
ANDREZZI EUGENIO
residente in Milano
nato in Milano
di anni 65
stato civile coniugato
e' morto il giorno
16/01/1913
in Milano
Nota: l'età di morte non
coincide con quella derivabile da altri documenti: se Eugenio ha 38
al momento della nascita di Elvira (vedi atto) e ne ha 27 nel 1882,
non può averne 65 al momento della morte di lei, ma - casomai - 55.
C'è una remota probabilità che il certificato di morte sia di un
omonimo del padre di Elvira, ma tendiamo a pensare a una svista dello Stato civile.
II e) Cenni biografici di
Elvira Andrezzi (Leonardo Sciascia - pubblicato in conclusione a
Storie della povera Rosetta, Sciardelli, Milano, 1983 - reperibile
in Leonardo Sciascia - Opere - a cura di Paolo Squillacioti -
Adelphi, consultabile qui)
Elvira nasce il 1°
settembre 1895 in via Arena 33 a Milano, ultima di nove figli, da
Eugenio Andrezzi e da Rainoldi Genueffa: il padre è facchino, la
madre casalinga.
Il 17 dello stesso
mese viene battezzata nella Basilica di S. Eustorgio e le vengono
imposti i nomi di Elvira, Rosa, Ottorina. Agli atti della Parrocchia
il nome della madre risulta Giuseppa.
Nel 1911 frequenta per
alcuni mesi la scuola elementare di via Ariberto, se ne ha notizia
dal registro della prima classe dove nel mese di febbraio è scritto:
« assentatasi per malattia ».
Risiede sempre nei
quartieri di Porta Ticinese e Porta Genova: via Arena, Bastioni
Genova, c.so Ticinese, piazza Macello, via Vetraschi. Solo nel 1912
abita per qualche tempo in via Espinasse al 2, ospite di Orlandi
Attilio, detto « Buterin ». L’anno successivo comunque torna a
vivere nel vecchio quartiere, al numero 7 di via Gaudenzio Ferrari.
Il 21 marzo 1913, col
nome di « Rosetta de Voltery », debutta come cantante al Teatro San
Martino.
Muore all’Ospedale
Maggiore di Milano il 27 agosto 1913.
Nel registro conservato
nell’archivio dell’ospedale si legge: « Elvira Andressi d’anni
18 di professione cantante domiciliata e nata a Milano, via Gaudenzio
Ferrari, 7; fu accolta il 27 agosto 1913 – ore 2 – in
sala T.S. [sciolto in nota: Tentati suicidi] per avvelenamento T.S.
Deceduta il 27 agosto 1913 – ore 11,30 – per avvelenamento con
sublimato corrosivo ».
Elenco delle fonti
Fonti di Leonardo Sciascia
a) fonti documentali
i) atti e certificati di nascita e morte, stati di famiglia e certificati di residenza (Anagrafe del Comune di Milano),
ii) registro parrocchiale (Basilica di S. Eustorgio);
iii) registro della prima classe della scuola elementare di via Ariberto;
iv) registro dell'Ospedale Maggiore (conservato nel suo archivio);
b) periodici
i) Corriere della Sera
ii) La Stampa
iii) Avanti!
iv) L'Italia
v) Il Secolo
vi) Il Lombardia
viii) La Gazzetta degli Spettacoli
c) libri
i) Marco Ramperti, Vecchia Milano. Cinquanta capitoli di ricordi rintracciati, Milano, M. Gastaldi, 1959.
Fonti del nostro post
Rispetto alle fonti utilizzate da Leonardo Sciascia, dall'Anagrafe del Comune di Milano mi sono fatto rilasciare quattro documenti:
- Anagrafe del Comune di Milano: a) Atto di nascita di Andrezzi Elvira, b) certificato di morte di Andrezzi Elvira c) atto di morte di Andrezzi Elvira d) Certificato di nascita di Andrezzi Eugenio. Tutti questi certificati sono reperibili presso l'anagrafe: li abbiamo ottenuti e pubblicati qui sotto in appendice;
- Luciano Visintin, Ecco la Rosetta di piazza Vetra "ammazzata in una notte oscura", in Corriere della Sera, 25 febbraio 1980 (contiene molti errori, tra cui lo spostamento della morte al 1914, ma anche alcune informazioni interessanti);
- Leonardo Sciascia, Così ammazzarono Rosetta, la bella di piazza Vetra in Corriere della Sera, 4 dicembre 1983 (si tratta di una lungo estratto del libro Storia della povera Rosetta (Sciardelli, 1983) preceduto da una nota di l.vi. ovvero Luciano Visintin);
- Leonardo Sciascia, Storie della povera Rosetta (Sciardelli, 1983) che venne pubblicato in edizione limitata (145 esemplari numerati) con 5 acqueforti di Franco Rognoni e ristampato in edizione fuori commercio destinata ai clienti della Banca del Monte di Milano. Il testo confluisce nel successivo Cronachette, uscito nel 1985 per Sellerio (ora disponibile nel catalogo Adelphi). Non essendo disponibile il precedente breve saggio del 1983 (si trattava di un'edizione limitata di sole 37 pagine), ci siamo basati di due anni successivo è che comporta varianti minime, tutte peraltro documentate in Leonardo Sciascia - Opere - a cura di Paolo Squillacioti - Adelphi, consultabile qui. Il testo originale del 1983 però, presentava in più una breve appendice intitolata Cenni biografici di Elvira Andrezzi, che è di estremo interesse ai nostri fini e che - fortunatamente - è sempre reperibile nelle Opere a cura di Squillacioti e che abbiamo sintetizzato in appendice;
- Il testo della canzone La povera Rosetta, nelle sue varie versioni (vedi qui sopra al capitolo 2), pur essendo la molla iniziale di questa ricerca, va preso con le dovute precauzioni in quanto molto "romanzato", a partire dalle date;
Altre fonti- Severino Pagani - La bella Rosetta. Le donne di Milano ieri e oggi, Edizioni Virgilio, Milano, 1975
Gran parte di ciò che si trova in rete o su carta è una misto tra l'analisi dei testi delle canzoni, voci di quartiere e scopiazzature del già citato articolo di Visintin del 1980, ispirato dal libro di Pagani, e ne perpetuano i relativi errori (vi si trovano infatti molti erronei riferimenti al "13 agosto"(come nella canzone) o al 1914 (come in Pagani e Visintin), chiari indicatori di queste origini dubbie.
Tra i più accettabili si vedano:
- La povera Rosetta in Canzoni contro la guerra;
- La povera Rosetta della Vetra in La Canzon Milanesa;
- La povera Rosetta in Storie di Milano;
- Angelo Guglielmi - La contessa e il bersagliere in La Repubblica, 29 novembre 1986 (contiene una fugace citazione del lavoro di Sciascia);
- Malavita alla milanese in Magzine (questo articolo parla non tanto di Rosetta, quanto di Attilio Orlandi, el Buterin);
- Ho inoltre cercato di migliorare la voce La povera Rosetta (che, ad esempio, riportava ancora il 1914) in Wikipedia.
Altre fonti ancora da esperire
- Altri quotidiani dell'epoca come il Secolo, l'Italia, la Lombardia, la Perseveranza (di cui non sappiamo se abbia scritto della morte di Rosetta) e il Resto del Carlino.