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mercoledì 30 gennaio 2019

Molto prima di Girardengo

La prima corsa ciclistica sul territorio italiano prese il via da Firenze, alle nove di mattina di mercoledì 2 febbraio 1870 (vedi David V. Herlihy, Bycicle: The History pag. 144)
Diciannove partecipanti per trentatré chilometri: quelli che separavano l'allora capitale del Regno d'Italia da Pistoia. Il vincitore, il sedicenne americano Rynner Van Host, li percorse in due ore e dodici minuti, in sella a una bicicletta francese le cui ruote avevano un diametro di ottacinque centimetri (ma in corsa ce n'erano anche di fattura italiana e con diametri fino a centocinque centimetri).

Nonostante il ciclismo agonistico fosse al debutto, la gara raccolse un notevole concorso di pubblico. Sono riuscito a trovare i due resoconti che La Nazione dedicò all'evento: quello del giorno successivo è un po' lacunoso, manca ad esempio il nome del vincitore, così la testata fiorentina ci torna su ancora due giorni dopo: venerdì 4 febbraio con molti più dettagli, dedicando gran parte di pagina 3 del quotidiano. Curiosamente, nello stesso giorno, viene riportata la notizia di una scommessa tra due sportivi relativa alla sfida di percorrere a piedi, esattamente lo stesso tracciato (Firenze-Pistoia sulla strada per Poggio a Caiano) in cinque ore. Ce l'avrà fatta il signor Roncaglia?
Leggiamo.

Da Cronaca della città - La Nazione, giovedì 3 febbraio 1870 - pag. 3
Ieri mattina un grandissimo numero di persone affrettava il passo fuori la Porta al Prato, e sollevava nembi di polvere sulla strada postale di Pistoia. I pedoni procedevano allegramente sui marciapiedi ai lati della strada, ficcando gli occhi curiosi nella lunga fila di carrozze che correva via verso il centro di San Jacopino, luogo designato alla riunione dei velocipedisti inscritti già da qualche giorno sull'albo del Veloce-Club di Firenze per concorrere ai premi assegnati ai vincitori d'una corsa di bicicli tra la nostra città e quella di Pistoia.
Attraverso gli sportelli delle vetture abbiamo scorto tutti i più allegri ed eleganti giovinotti del nostro Jockey Club, molte belle signore, e molti sportmen forestieri ed indigeni sempre pronti ad accorrere dove c'è uno spettacolo da godere... o una scommessa da arrischiare.
I cavalieri erano in buon numero e montavano superbi cavalli, fra i quali primo il bellissimo morello del marchese De' Piccolellis, o il baio del contino Bastogi.
Non poche le vetture scoperte attaccate a due cavalli che facevano risuonare l'aria dell'allegro tintinnare delle sonagliere e facevano chiaro il disegno di chi v'era dentro, disposto a seguitare gli arditi velocipedisti fino alla meta della corsa.
A pie' del Ponte alle Mosse i membri del Veloce-Club attendevano gl'inscritti, muniti del loro veicolo, innanzi ad una casetta su cui stata inalberato il pennone tricolore che segnava il punto di partenza.
Dei ventitrè concorrenti presentatisi fino ad ieri, diciannove soli hanno effettivamente preso parte alla corsa.
La folla era più spessa lungo í cancelli della magnifica villa di San Donato, alla scesa del Ponte, e specialmente innanzi all'ingresso d'onde era dato scorgere a destra ed a manca un lungo tratto della strada postale.
Dieci minuti innanzi che fosse dato il segnale della partenza le guardie di pubblica sicurezza sí presero cura di arrestare in fila a' due lati della via le numerose carrozze che andavano su e giù per quel luogo e la folla de' pedoni accorsi a godere dello spettacolo.
L'orologio di San Donato scoccava appena i suoi nove colpi quando í velocipedi scomparvero sull'alto del ponte. I bicicli divoravano la strada, confusi però in mezzo alla turba di carrozze che insieme con loro si avviava verso Pistoia.
I giovani che inforcavano la strana cavalcatura erano vestiti succintamente e portavano al braccio un nastro di due colori, distintivo acconcio a farli riconoscere dalle Commissioni del Veloce-Club sparse lungo la via che dovevan percorrere.
Le scommesse più forti s'impegnavano a favore d'un giovanetto americano che ci passò ratto dinanzi tutto intento ad affrettare il corso del suo veicolo, e ci parve giovanissimo, pallido, magrolino, ma svelto, disinvolto e leggiero e adattatissimo a tutte l'esigenze dell'equitare in arundine larga, qual'è appunto, o presso a poco, il moderno velocipede.
Tutti i concorrenti montavano il biciclo.
Vedemmo poco lungi un velocipede a tre ruote e munito di un seggiolo alla parte posteriore, ma non era di quelli che prendevano parte alla gara.
Ci vien detto che i velocipedisti giunsero in poco più di due ore alla meta del loro viaggio e qualcuno ancora articolò il nome dal primo arrivato.
Ma per tema d'incorrere in qualche inesattezza ci riserbiamo di dare domani esatta relazione delle vicende della corsa.
 Ma i dettagli mancanti vengono abbondantemente recuperati il giorno successivo:
Da Cronaca della città - La Nazione, venerdì 4 febbraio 1870 - pag. 3
CORSA DEI VELOCIPEDI.
La Corsa di velocipedi da Firenze a Pistoia ebbe luogo mercoledì come era stato annunziato. Il tempo fu favorevole, e una leggerissima pioggia caduta nelle prime ore della mattina aveva bagnato un poco la polvere della strada, ma non era stata tale da opporre col fango un ostacolo che avrebbe messo a dura prova i muscoli dei velocipedisti.
Si era parlato assai di questa Corsa, si diceva già che da Modena e da Pisa venivano concorrenti, e che il numero degli iscritti superava la trentina. Questo numero poi, come era da aspettarsi, diminuì: e mercoledì mattina una ventina soltanto di velocipedi era sulla strada di Pistoia al punto fissato per la partenza, al Ponte alle Mosse.
Moltissimi curiosi erano venuti a godere di questo nuovo spettacolo. Alcuni di loro, a cavallo o in barroccino si proponevano di seguire la corsa per vederne le varie vicende.
Era stata scelta la strada che passa dal Poggio a Caiano perchè più breve e meno frequentata. In alcuni punti stavano i delegati del Veloce-Club che dovevano vegliare al buon andamento della coma. Al Poggio a Calano tutti i concorrenti dovevano fermarsi a far vidimare il loro biglietto di ammissione.
Alle nove tutti i concorrenti erano al posto loro assegnato. La larghezza della strada non consentiva che fossero collocati tutti di fronte; erano perciò stati disposti su quattro linee con un intervallo di pochi metri fra l'una e l'altra. Dei brevi istanti che necessariamente dovevano decorrere fra le partenze delle varie squadriglie era tenuto conto perché la Commissione Giudicante potesse poi assegnare con piena giustizia i quattro premi stabiliti.
V'erano velocipedi di varie fabbriche e di fogge diverse; i più venuti di Francia, alcuni fatti in Italia. Il diametro delle ruote variava da ottantacinque centimetri a un metro e cinque.
I concorrenti erano tutti in sella. Molti di loro avendo dei veicoli troppo alti per toccar terra col piede, se li facevano sostenere da qualche spettatore benevolo. Altri che avevano avuto la fortuna o l'arte di collocarsi presso il marciapiede puntavano su quello con il piede sinistro. Tutti colle mani sulle impugnature, col piede destro ben piantato sopra il pedale e pronto a dar l'impulso, aspettavano il cenno.
Pochi minuti dopo le 9 suonò la tromba e la prima squadriglia si mosse, seguita quasi immediatamente dalla seconda, dalla terza, della quale facevano parte i più valenti, e dall'ultima. Non tutte le partenze furono felici; qualcuno fu visto colla gamba destra sulla sella e il piede sinistro in terra tentare con vario successo di prendere l'assetto definitivo, ma fu un momento; tutti o per virtù propria o per soccorso altrui vi riuscirono, e mossero rapidamente alla volta di Pistoia.
Mezz'ora dopo partiva da Firenze nella stessa direzione il treno ordinario, portando molti dei componenti il Veloce Club, alcuni altri velocipedisti che meno fiduciosi delle proprie forze, o più amanti del comodo loro, avevano trovato preferibile quel mezzo di trasporto, e molti curiosi che si recavano a Pistoia per vedere l'arrivo.
Il termine della corsa era stato fissato a un quarto di miglio circa dalla porta della città, in faccia a un palazzetto posto gentilmente dal proprietario a disposizione del Veloce-Club, dove stavano i giudici e dove era preparato quanto potesse occorrere ai velocipedisti al loro arrivo.
Un numero immenso di curiosi occupava la strada, si stendeva per un lungo tratto di quella verso Firenze, si arrampicava ai muri e agli alberi per meglio vedere. Molte signore stavano nelle loro carrozze ferme sui lati della via. Dinanzi alla casa era schierata una banda musicale, e la folla era così compatta che i membri del Veloce-Club non ottennero senza fatica un po' di largo, tanto da permettere ai velocipedisti di arrivare fino alla meta senza rallentare la loro andatura.
Erano scorse due ore e dieci minuti dopo la partenza. Già cominciavano a sapersi, da qualcuno arrivato in legno o a cavallo, i nomi di quelli che erano più avanti e chi era pratico del nuovo e tanto combattuto veicolo, prevedeva già prossimo l'arrivo dei primi. A un tratto gli spettatori che stavano in vedetta su per i muri, cominciarono a gridare: Eccolo! eccolo! e poco dopo tutti poterono scorgere da lontano, poco sopra all'ondeggiar delle teste un cappello ornato del distintivo dal Veloce Club che si avanzava senza scosse e con quell'andatura piana e uniforme che distingue il velocipede.
Era il signor Van Hest Rynner, giovinetto Americano, ben noto a quanti frequentano le Cascine sul mezzogiorno, per la straordinaria maestria colla quale si serve del velocipede. Si avanzava assai lentamente e appariva spossato; ma nessuno degli altri si vedeva ancora, ed egli giungeva alla meta in due ore e dodici minuti. Gli amici, i conoscenti che si trovavano sulla strada lo acclamarono, e tutta quella massa di spettatori meravigliata di veder vincere una corsa così lunga a un giovinetto che non mostra di avere più di quindici o sedici anni, proruppe in una salva di applausi unanime e prolungata. Egli montava un velocipede della fabbrica Michaux di Parigi. I cerchioni erano fasciati di caoutchoue, ma la ruota maggiore aveva soltanto ottantacinque centimetri di diametro; era forse la più piccola di tutte.
Quella ruota aveva dovuto, per percorre trentatre chilometri, fare più di dodici mila giri, novanta per minuto, tenendo conto del tempo impiegato. Ed è da notare che ogni giro di ruota suppone la spinta successiva delle due gambe.
Si seppe poi che il signor Van Hest si era spinto avanti a tutti fin da principio, ed era riuscito a conservare sempre il suo posto.
Era appena sceso, che un nuovo grido segnalava l'arrivo di altri. Questi si vedevano da lontano dominar la folla di tutta la testa. Il primo era il signor Augusto Charles montato sopra un velocipede della Compagnie Parisienne, con una ruota di un metro di diametro: il secondo era il signor Alessandro de Sariette e montava un velocipede costrutto a Firenze, la cui ruota aveva un diametro di un metro e cinque centimetri.
Erano a distanza di pochi metri l'uno dall'altro. Giovani alti e robusti ambedue apparivano piuttosto riscaldati che stanchi, e venivano molto rapidamente continuando fino all'ultimo momento la gara.
Erano seguiti a poca distanza dal signor Edoardo Ancillotti, venuto da Pisa per prender parte alla corsa. Il suo velocipede era di fabbrica francese e il diametro della ruota era di un metro. Anche questi tre ebbero la loro parte di applausi.
Dieci minuti dopo arrivava il quinto. Era il signor Gustavo Langlade presidente del Veloce-Club. Egli aveva risparmiato le sue forze, e non mostrava segno di fatica. Seguirono poi gli altri quasi tutti prima che fossero scorse tre ore dopo la partenza. I più di loro, perduta la speranza di vincere, avevano preso un'andatura moderata e non si erano inutilmente stancati. Nessuna disgrazia avvenne. Uno solo giunto a poca distanza da Pistoia cadde, e si fece alcune leggiere contusioni che però lo indussero a seguitare il viaggio in carrozza. Gli altri arrivarono tutti felicemente e tre ore e trentanove minuti fu il limite massimo del tempo impiegato a percorrere l'intero cammino prescritto.
Intanto i quattro vincitori, preceduti dalla banda e seguiti dalla folla, erano entrati trionfalmente in città montati sui loro velocipedi, ed erano andati a fermarsi alla trattoria del Globo.
Sul conferimento del primo e del secondo premio non v'era questione. Per il terzo, sostennero alcuni che potesse pretenderci anche il signor Ancillotti, il quale era stato collocato per la partenza in quarta fila. La Commissione giudicante doveva riunirsi ieri sera per pronunziare definitivamente.
È da notarsi che i quattro vincitori erano arrivati i primi anche al Poggio a Caiano, e vi erano arrivati nello stesso ordine quantunque tre di loro si passassero e ripassassero più volte a vicenda prima di raggiungere la meta.
La popolazione di Pistoia fu in moto e in festa tutto il giorno, e tutti i velocipedisti furono accolti con mille cordiali profferte di ospitalità. Verso sera varii velocipedi percorrevano la città seguiti da torme di ragazzi che accomodandone a modo loro il nome, li chiamavano luciferi... Più tardi un vagone da merci raccoglieva gli strumenti della gara, e i concorrenti e í curiosi se ne tornarono donde erano venuti, i primi ragionando delle varie vicende della lotta e delle cause infinite che avevano potuto ritardare il loro cammino, gli altri contenti di aver passato un'allegra giornata, e grati a chi n'era stato cagione.
Non sappiamo se l'idea di sfidare a piedi lo stesso percorso sia venuta al signor Roncaglia in seguito alla corsa ciclistica. E il cronista de La Nazione non ce lo dice. Fatto sta che su questo tracciato si gioca ben duemila lire (per dire: una copia de La Nazione costava 10 centesimi)
CRONACA DELLA CITTÀ.
Altro che velocipede!... Siamo addirittura agli uomini dal piè veloce, agli Achilli del secolo decimonono... si rinnovano i miracoli d'Atalanta, o lasciando da parte la favola e la mitologia si ripetono a Firenze le meravigliose prove di que' celebri camminatori americani da' garetti d'acciaio, che empirono or non ha molto del loro nome tutti i giornali della grande repubblica.
Il signor Roncaglia, membro del nostro Jockey-Club, si sentì giorni sono così forte in gambe da scommettere che sarebbe andato in cinque ore e senza mai fermarsi da Firenze a Pistoia per la via del Poggio a Caiano.
La scommessa fu tenuta dal signor Sebastiano Martini-Bernardi, uno degli sports-men più emeriti ed eleganti della capitale, che depositò le sue brave duemila lire, e scelse a giudici il conte Spina dí Rimini, e il signor Otley di Firenze.
Martedì a mezzogiorno in punto, il signor Roncaglia partì tranquillamente dalla Porta al Prato, seguito a poca distanza da due carrozze in una delle quali sedevano i due giudici, e nell'altra lo stesso signor Martini.
Trentatre chilometri di strada sono un bel tratto in verità, e non pareva possibile che in cinque ore alcuno riuscisse a percorrerli a piedi nè erano pochi coloro che avrebbero volentieri tenuto le parti del signor Martini.
Infatti sul principiar della prova, tenuto conto dei primi chilometri percorsi in un dato spazio di tempo, si pronosticava che l'ardito camminatore sarebbe venuto meno al difficile compito, e le sue duemila lire correvano gravissimo rischio. Ma grado a grado, e chilometro a chilometro l'esercizio sembrava sciogliere e rafforzare i muscoli del signor Roncaglia, che cominciò ad affrettare il passo, a precorrere le carrozze, a divorare la via, tanto che giunto presso alla mèta del suo viaggio potè rallentare la corsa, e passeggiarsi quasi a diporto gli ultimi tre o quattro chilometri presso Pistoia.
Le cinque pomeridiane non erano ancora scoccate, e il vincitore entrava da Porta Fiorentina nella città del Leoncino. Le duemila lire del signor Martini erano definitivamente perdute!...

lunedì 19 marzo 2012

Tutto in una notte (una storia vera)



Per apprezzare al meglio questa storia è necessario prima di tutto metterne bene a fuoco i tempi, i luoghi, le situazioni e anche i soldi. Sì, perché nell'ottobre del 1988 (settimana più, settimana meno) i tempi della mia vita erano strettissimi, le distanze enormi, le situazioni complicate e i soldi davvero pochi.

Per i luoghi ho fatto una mappa, per il resto potete casomai prendere qualche appunto.

Nell'ottobre del 1988 avevo venticinque anni e di giorno, dalle otto e mezza alle quattro, lavoravo come educatore alla Fondazione Don Gnocchi di Inverigo (lettera C sulla mappa), altissima Brianza. Il tardo pomeriggio e la sera invece collaboravo, per un paio di giorni alla settimana, con Radio Popolare, la storica emittente milanese, che allora trasmetteva dalla centralissima Piazza Santo Stefano (lettera D).

Io a Milano, dalle parti di piazza Udine, ci sono anche nato, ma nel 1977, quando avevo quattordici anni, mio padre seguendo gli spostamenti dell'IBM per cui lavorava, ci aveva deportato da Milano a Vimercate (lettera L), una placida cittadina della bassa Brianza. Adesso in auto da piazza Udine a Vimercate ci si mettono venti minuti, ma il trasloco da Milano alla provincia mi aveva causato un trauma pressoché irrimediabile, perché mi era piombato sulla testa proprio alle porte dell'adolescenza.

Così nel 1985, circa tre anni prima dei fatti che sto per raccontare, non appena avevo iniziato a lavorare e a mettere da parte qualche lira, avevo lasciato un po' alla chetichella la casa dove abitavo con i miei, per trasferirmi di nuovo a Milano, zona Fiera (lettera A), in un appartamento condiviso con Elena, una mia cara amica e la sua amica Luisa. Il trilocale di via Tiziano era presto diventato un punto di riferimento nella Milano degli anni ottanta: ci passava un sacco di gente di tutti i tipi, compresi alcuni che avevano o che avrebbero fatto strada come lo stesso Massimo Cirri, grazie al quale avevo iniziato a muovere i primi passi in radio o Carlo Taranto, che non era ancora il signor Carlo della Gialappa's Band oppure il celebre Bifo di Radio Alice il quale una volta si era portato dietro persino il filosofo francese Felix Guattari, ma sicuramente mi dimentico qualcuno. Ognuno dei tre abitanti disponeva di una propria stanza e non c'era alcun legame sentimentale tra di noi, ma la situazione logistica aveva creato qualche imbarazzo quando poi, alla fine del 1987, mi ero fidanzato con Piera, la ragazza che poi sarebbe diventata mia moglie, una collega della Fondazione Don Gnocchi che abitava a Giussano (lettera I). In particolare la sua famiglia, brianzola doc, alla notizia che lei aveva iniziato a vedersi un tizio che conviveva con altre due ragazze, era rimasta colpita come un pugile raggiunto da un uppercut e, per qualche mese, aveva fatto di tutto per ostacolare la nostra frequentazione. Così, per riconquistare il favore dei futuri suoceri, ma anche per risparmiare due lire in vista del matrimonio, proprio qualche settimana prima dei fatti che sto per narrare avevo accettato obtorto collo di tornare a casa dei miei, mettendo fine ai ruggenti giorni milanesi per avviarmi a una tradizionale vita piccolo borghese.

Me l'ero comunque presa comoda e mi ero concesso qualche settimana per mollare del tutto la casa di via Tiziano e ogni tanto, per comodità, anche se avevo restituito le chiavi alle mie amiche, mi capitava ancora di passare la notte lì. Ne era nato un simpatico tira e molla tra me e Piera la quale arrivava talvolta al punto di minacciarmi di fare una telefonata di controllo a casa dei miei, la mattina verso le 7.15, prima che passassi a prenderla per andare assieme al lavoro, per verificare se avevo passato la notte davvero a Vimercate. Col telefono fisso, ovviamente: i cellulari erano ancora un oggetto misterioso, a quel tempo. Ora lo riterrei un inaccettabile sopruso, allora lo prendevo come un atto d'amore e di attaccamento nei miei confronti.

La sua dolce minaccia era stata reiterata anche nel pomeriggio di quel mercoledì 13 ottobre 1988. La data è fittizia, ma non lontana da quella reale, che adesso non posso ricostruire con esattezza. Siamo finalmente arrivati al giorno X, ma andiamo per passi, partendo dal risveglio.

La mattina di mercoledì 13 ottobre si apre per me verso le 7. Sveglia, doccia e colazione a Vimercate, nella casa dei miei, da poco tornata ad essere ancora "casa mia". Mezz'ora scarsa di auto per passare a prendere Piera a Giussano e poi altri dieci minuti in auto assieme per raggiungere la sede della Don Gnocchi a Inverigo. Sono le 4 del pomeriggio quando la riaccompagno a casa e mi dirigo verso Milano, per partecipare a Notturnover, un programma di Radio Popolare, che andava in onda dalle 11 alle 2 di notte. Nel salutare Piera ottengo da lei l'affettuosa minaccia di cui sopra: “Guarda che domattina ti chiamo per vedere se hai dormito dai tuoi”. In effetti qualsiasi persona assennata, finendo di trasmettere alle 2 a Milano, con la prospettiva di tornare a lavorare la mattina seguente alle 8.30 a Inverigo e disponendo di una casa in città, non sarebbe di certo tornata a dormire a Vimercate. Ma evidentemente volevo dimostrare al mondo, e a lei, che ero in grado di tenere fede a un patto, per quanto oneroso.

Notturnover era un vero sconquasso, un format per certi versi geniale: consisteva in una “conduzione a due” della durata di tre ore (dalle 11 alle 2 di notte), punteggiata da una serie di “corrispondenze” da parte di 3-4 inviati in giro per la città che collegandosi dai vari teatri, cinema o palazzetti dello sport, tramite telefoni a gettoni (o erano già a moneta?) oppure rientrando fisicamente in studio, rendevano edotti gli ascoltatori di tutto ciò che si muoveva nella notte milanese. Normalmente ogni bravo inviato disponeva di un registratore portatile a cassette: il mitico Sony Walkman. Radio Popolare ne aveva un certo numero da distribuire di volta in volta, ma molti inviati se ne erano comprato uno per conto loro. Con il Walkman l'inviato, poteva realizzare interviste volanti fuori dai cinema o dai teatri e poi, una volta rientrato in studio, proporle direttamente, senza troppi montaggi. Ricordo ancora quella volta che ero riuscito a intrufolarmi nei camerini della Scala al termine della prima del Guglielmo Tell, (qualche mese dopo i nostri fatti, a Sant'Ambrogio 1988), intervistando prima Luca Ronconi e poi Mike Bongiorno il quale aveva persino salutato gli ascoltatori di Radio Popolare, che erano quanto di più lontano dalla sua visione del mondo ci potesse essere. La registrazione di Ronconi era stata un gioiellino, ma durante quella di Bongiorno avevo purtroppo tenuto la pausa inserita, così nessuno sarebbe mai riuscito ad ascoltare i saluti di Mike a Radio Popolare. La cosa curiosa è che Radio Popolare risarciva i due conduttori di Notturnover con un gettone di 50.000 lire, ma non gli inviati. A volte mi capitava di fare il conduttore (ero in onda ad esempio la notte che cadde il muro di Berlino), ma il 13 ottobre 1988 ero un normale inviato, quindi lavoravo gratis.

Quella sera però potevo usufruire di una strumentazione tecnologica incredibile, perché quella sera la mia missione da inviato di Notturnover era di quelle davvero speciali.

Così finita la mia giornata di lavoro, scaricata Piera nella sua casa giussanese dopo l'abituale razione di baci e minacce e rivolta verso Milano la prua della fantastica Peugeot 305 beige che il babbo mi aveva ceduto (una volta acquistata una prestigiosa Alfa 75), giungevo in piazza Santo Stefano verso le 5.30, ansioso di mettere le mani su ciò che di meglio la tecnologia dell'epoca metteva a disposizione per le esterne: LA VALIGETTA!

LA VALIGETTA! Si trattava di un vero e proprio studio mobile, un mixer che era predisposto per essere collegato a una normale presa telefonica e che consentiva di effettuare corrispondenze da qualsiasi luogo purché fosse connesso alla rete della SIP (come allora si chiamava la Telecom). Era uno strumento leggendario, di cui si parlava sottovoce e con rispetto nei corridoi della radio. Alcuni dubitavano persino della sua esistenza. Io stesso, in oltre diciotto anni di collaborazione con Radio Popolare, lo avrei utilizzato soltanto due volte.

Da qualche tempo Notturnover, oltre alle varie rassegne culturali, aveva iniziato a seguire le gesta di chi la notte faceva un lavoro interessante. Io avevo proposto di raccontare per una sera le avventure di un mio amico, Doriano, che come volontario gestiva le emergenze sanitarie al centralino della sede della Croce Viola in Viale Liguria (lettera B). La mia proposta era stata accettata: tra un collegamento e l'altro, nell'arco delle tre ore del programma, sarei anche dovuto salire sulle ambulanze, seguendo le varie uscite dei volontari per poi riferirne, una volta tornato nella sede della Croce Viola, tramite LA VALIGETTA. Oggi si potrebbero tranquillamente effettuare le corrispondenze direttamente dall'ambulanza o dai luoghi delle operazioni tramite un normale cellulare, allora era tutto molto più scomodo. Ci voleva LA VALIGETTA.

Una volta concordati con Sergio Ferrentino, allora coordinatore di Notturnover, gli ultimi particolari del servizio che sto per fare, vengo invitato a passare dall'ufficio del tecnico, Emanuele Consolaro, il quale mi spiega passo-passo le operazioni necessarie all'utilizzo della VALIGETTA. Al termine della breve lezione Consolaro mi consegna l'ambito dispositivo. Nell'affidarmelo pronuncia le testuali parole: “Attento Marco, che costa UN MILIONE”. Bum! Un milione, ragazzi, era una cifra stellare, la ricompensa del Signor Bonaventura. La fredda traduzione negli attuali cinquecento euro, matematicamente ineccepibile, non è soltanto irriverente è assolutamente offensiva.

Si tratta in ogni caso della seconda minaccia del giorno. Due cose non devo fare quella sera: 1) dormire in qualsiasi posto diverso dalla casa dei miei e 2) smarrire o danneggiare LA VALIGETTA.

Depositato con tutte le cure del caso sul pianale del baule della mia 305 l'oscuro oggetto del desiderio di qualsiasi inviato di Radio Popolare, raggiungo verso le 7, l'amico Doriano che mi aspetta nella sede della Croce Viola.

Facciamo uno spuntino in un bar al termine del quale Doriano mi presenta gli altri volontari della Croce Viola. Mi spiega come lavorano: io prendo appunti e poi passo a testare la connessione della VALIGETTA. Tutto perfetto. E così, ridendo e scherzando, arrivano le 11: siamo in onda.

Alla sala operativa della Croce Viola quella sera arrivano poche chiamate, ma effettuiamo lo stesso un paio di collegamenti per raccontare la vita dei volontari, poi – finalmente – c'è da effettuare un intervento! C'è stata una piccola esplosione in un negozio dalle parti di Viale Monterosa. Arriviamo sul posto: non ci sono feriti. Forse è un avvertimento del racket: roba da polizia comunque, non da ambulanza. Torniamo in sede e, sempre tramite LA VALIGETTA, io e Doriano riferiamo dell'uscita agli ascoltatori di Radio Popolare.

Alle 2 di notte la trasmissione finisce. Io mi sento stanchissimo: in fondo sono in piedi dalle 7 senza essere mai passato da casa e la prospettiva di dovermi svegliare tra poche ore, precisamente alle 7.15 con la telefonata di Piera, inizia a crearmi qualche disagio. Anche perché raggiungere casa dei miei a Vimercate partendo da viale Liguria richiede non meno di 40 minuti.

Sono circa le 2.15 quando, nel riporre nuovamente LA VALIGETTA sul pianale del baule della 305, mi rendo conto che sta per iniziare a piovere. Chiudo velocemente il baule, saluto in fretta gli amici della Croce Viola e volo verso est sperando di gabbare sul tempo il fortunale.

Ma quello che si sta abbattendo su Milano non è un normale temporale: è un uragano tropicale. Davanti al mio parabrezza nel giro di pochi istanti si forma un vero e proprio muro liquido e i viali di Milano si costellano in brevissimo tempo di profonde pozze d'acqua. Sfreccio all'impazzata su Viale Liguria, viale Tibaldi, viale Toscana, viale Isonzo. Percorro all'incirca quattro chilometri. Le sospensioni alla francese, molto morbide, della Peugeot 305 seguono perfettamente il profilo ondulato della strada. Forse troppo perfettamente, perché poco prima di arrivare in Piazzale Lodi una ondulazione più profonda delle altre causa una forte imbarcata del muso dell'auto che si ritrova totalmente immerso nell'acqua di una pozza: un tuffo incredibile dovuto un po' alla profondità stessa della pozza, ma soprattutto all'effetto spruzzo causato dalla notevole velocità del mezzo. (Punto E)

La 305 ha un sussulto e poi si blocca.

Mentre scendo dall'auto mi rendo conto che la pioggia sta scemando. Per fortuna, certo, ma ormai il danno è fatto. Apro il cofano e tento con uno straccio di asciugare l'asciugabile, a partire dalle candele. Sto portando a compimento questa difficile missione conteggiando mentalmente quante ore di sonno restano a mia disposizione (non più di quattro) quando mi si accosta una Renault 9 grigia dalla quale spunta il volto di un trenta-trentacinquenne di chiara origine magrebina, vestito però come un impiegato di Saronno: completo grigio e camicia bianca, senza cravatta, ma abbastanza curato. Il tizio mi guarda, abbassa il finestrino e mi chiede qualcosa tipo: “Vuoi fare l'amore, vero?”.

Io no, non voglio fare l'amore o forse anche sì, ma non in quel momento e certamente non con lui. E gli dico grosso modo: “No, non ci siamo. Lo vedi o no che ho un altro problema, adesso?”. Lui sembra totalmente ignorare il cofano spalancato, gli attrezzi, lo straccio e le candele. E insiste: “Lo so, fate tutti così, ma volete fare l'amore”.

Ah, allora si è accorto che sto cercando di riparare la macchina, ma ritiene che sia un pretesto che mi sono inventato lì per lì, per non dare troppo nell'occhio, ma la verità è che voglio fare l'amore con tipi come lui. Insiste e mi spiega che quella zona è tipica per incontri di questo tipo. In effetti, mi si apre come un link mentale: Parco Ravizza, l'area verde che mi sono appena lasciato alle spalle nella mia folle corsa, mi è noto, fin dai tempi delle scuole medie, come luogo di incontri tra omosessuali.

Quello che non capisco bene è se lui si stia offrendo a pagamento, oppure gratis o se sia disposto addirittura a pagare per avermi. Lentamente, ma inesorabilmente, la prima ipotesi inizia a prevalere nella mia mente. Vuole essere pagato. E insiste. Almeno tre o quattro altre volte.

Lo fa in maniera strana, quasi con cortesia, lasciando un minuto, anche due, tra una proposta e l'altra, mentre io asciugo le candele ad una ad una, senza guardarlo in faccia. La trattativa continua, unilateralmente. Poi, a un certo punto capisco che non ne posso più: apro il portafogli, guardo quanto c'è dentro, cerco di immaginare quanto lui possa ricavare dalla copula con uno sconosciuto e decido di dargli la metà di quella somma: “Senti queste sono ventimila lire. Te le do se te ne vai.”. Ho già i miei cazzi, ci manca solo che me ne propongano un altro proprio in questo momento.

Lui prende le venti carte e fa per andarsene. Ma a quel punto, sarà l'effetto dei soldi tra le mani, il suo sguardo si illumina, come se fosse caduto un velo che gli impediva di ragionare correttamente. E mi fa, esibendo una sagacia che appariva fino a quel momento totalmente obnubilata: “Ma tu hai bisogno di aiuto?”

E certo, coglione, che ho bisogno di aiuto. Secondo te cosa sto facendo qui? Ah già, per te stavo cercando di rimorchiare. Ma lui adesso è un altro uomo: non più un decerebrato insistente, ma un ragazzo sveglio e collaborativo. Ha un'idea: “Ti spingo da dietro con la mia macchina”. L'idea, sui due piedi, non mi fa impazzire: si tratta di trasferire sui mezzi di locomozione la posizione che avrebbero verosimilmente assunto i nostri corpi se avessi aderito alla sua proposta originaria, salvo particolari predilezioni sue che non mi sembra il caso di stare a prendere in considerazione in quel momento anche perché poi, ripensandoci, la sua non mi sembra affatto una cattiva idea.

Così lui risale velocemente in macchina, effettua una breve retromarcia, mette il muso della sua Renault esattamente dietro al paraurti posteriore della mia Peugeot e inizia a spingere come temo sia solito fare. Sulle prime la 305, nonostante le spinte e la precedente parziale asciugatura delle candele, sembra non reagire, ma alla fine ha come un fremito. La spinta della Renault, a quel punto, si fa da continua a intermittente, con piccoli urti tra le due auto, fino a che, come in una sorta di orgasmo meccanico, quella troia della 305 non si mette definitivamente in marcia, sia pure a strappi. Premo l'acceleratore per dare il triplo del gas normale e per evitare ricadute nel buio dell'immobilità e così, urlando di gioia, supero piazzale Lodi e imbocco viale Umbria. Il tizio si accosta, io scendo dalla macchina e, in un impeto di generosità, apro il portafogli e decido di dargli anche l'altra metà della cifra che immagino costituisca il suo onorario standard. In fondo ha fatto il suo dovere e per darmi una mano ha rinunciato ad altri, immagino lauti, proventi. “Tieni, eccoti altre ventimila lire e grazie!”.

Risalgo in macchina: niente. Come “niente”?. Niente cazzo! La 305 non riparte. Sono le 3.10, anche partendo adesso non sarei a casa prima delle 4. Ma partire è una verbo che la mia 305 non sa coniugare, al momento. “L'avevo detto che eri una troia”. La spingo sul marciapiede, sulla destra di viale Umbria, poco dopo Piazzale Lodi. (Punto F sulla cartina).

Che fare? Mi guardo in tasca, mi sono rimaste poco meno di diecimila lire e un bancomat. Devo raggiungere Vimercate, ma come? Mi viene in mente che dall'altra parte della città, intesa come nord-ovest, visto che qui siamo a sud-est, nella casa di Via Tiziano la mia amica Elena, ha forse un'auto da prestarmi. Ma sono le tre di notte. E vabbè, ubi maior... vado a una cabina, la quale si mangia la moneta (o il mio gettone, non ricordo). Ne cerco a piedi un'altra, di cabina, la trovo e chiamo via Tiziano. Elena si sveglia, immagino che mi mandi mentalmente a quel paese, però mi risponde molto carinamente che sì, mi presta la sua Citroën Visa, purché gliela riporti il giorno dopo.

L'unico modo per raggiungere via Tiziano è il taxi. Chiamo e dopo un po' ne arriva uno. Sono le 3.30. Salgo, guardo il tassametro e riguardo dentro al mio portafogli ottenendo ben poco conforto: è una gara a inseguimento tra i pochissimi soldi che mi sono rimasti e la corsa del tassametro, già partito dall'alto di una chiamata notturna. A circa un chilometro da via Tiziano sono costretto a proporre al tassista: “Mi lasci giù qui oppure mi porti a un bancomat, ho finito i soldi”. Lui mi guarda con l'espressione da: “Ma guarda te se proprio a me deve capitare questo barbone” e mi porta a spese sue fino al portone di Elena. Mi scarica, io citofono, salgo, Elena le mi dà le chiavi: “Riportamela domani. Ah, non c'è benza”.

Solo le 3.40: ho l'automobile, ho un bancomat. Mi mancano i soldi e la benzina. Arrivo previsto a Vimercate: 4.20. Ore di sonno stimate: due e mezza. Mi dirigo al bancomat di via Domodossola (punto G, e vabbè...): devo prendere le banconote per la pompa notturna.

E qui capisco che la mia nottata sta svoltando: basta sfortuna. Entrando nel loculo del cash dispenser il bancomat mi cade su una griglia del marciapiade. Ma cade di piatto, senza infilarsi nella grata!!! Lo recupero e prelevo.

Faccio benzina all'automatico di viale Belisario e mi lancio verso Vimercate, schifando l'opzione autostrada e passando attraverso via Poliziano e via Cenisio fino a raggiungere il Cimitero Monumentale, altro luogo di incontri non strettamente etero, davanti al quale la Visa bianca di Elena improvvisamente si affloscia come una belva feroce colpita dal sonnifero del veterinario e non si muove più.

Mi sembra di rivivere la scena di poco prima: spingo a fatica il bolso mezzo meccanico sul marciapiede di via Ceresio (punto H) e decido finalmente di mandare affanculo l'universo mondo, di chiamare un altro taxi e di farmi riportare direttamente a Vimercate: costi quel che costi, me ne sbatto!

Alle 4 in punto arriva il taxista (al quale spiego solo l'ultima parte della serata: la Visa in panne). Quando gli chiedo di portarmi a Vimercate, quello pretende di essere pagato in anticipo. Mentre estraggo il portafogli, ora gonfio di banconote, mi dico: “Cazzo, mi costerà UN MILIONE”.

UN MILIONE. UN MILIONE, UN MILIONE... No, cazzo.

Cazzo, cazzo, cazzo, cazzo, cazzo, cazzo.

UN MILIONE come LA VALIGETTA!

LA VALIGETTA, cazzo, cazzo, cazzo, cazzo, cazzo.

Sì perché dall'altra parte della città c'è un'altra macchina ferma su un altro marciapiede, ripiena di VALIGETTA: un ritrovato della scienza e della tecnica del valore di un MILIONE. Chiedo al tassista, la cui fiducia nei miei confronti resta ferma attorno allo zero, di portarmi sì a Vimercate, passando però per Viale Umbria. E chiedendogli questo gli sventolo una mazzetta di banconote fruscianti, come uno qualsiasi dei magnaccia della zona, tra i quali ormai lui mi annovera di certo.

Mi trovo costretto a raccontargli l'intero susseguirsi degli eventi della nottata, per giustificare ai suoi occhi l'operazione di travaso di una VALIGETTA da una macchina ferma su marciapiede al suo taxi il tutto ad opera di un tizio stravolto, io, prelevato da un'altra auto ferma su marciapiede dall'altra parte della città. Mentre racconto, il tassista annuisce come si fa nei confronti dei pazzi: “Sì, sì, sì, certo, come no”.

Arrivo a Vimercate verso le 5.15, erogo qualcosa di non lontano dalle ottantamila lire al tassista e mi butto sfinito su un letto dopo ventidue ore di veglia, di lavoro, di radio e di inseguimenti attendendo il dolce suono della telefonata di controllo di Piera. Che però alle 7.15 non arriva: “Io di te mi fido”, si giustificherà quando ci vediamo.

Nel corso della mattinata dal lavoro chiamo Elena per avvisarla del guasto alla sua auto. “Ah sì, scusa, mi sono dimenticata di dirti che il mio ex-fidanzato, un elettrauto, ha installato un piccolo interruttore antifurto che va pigiato dopo la messa in moto, altrimenti non arriva la benzina al motore”.

Il pomeriggio successivo, dopo un'altra giornata di lavoro a Inverigo, ripercorro a ritroso i luoghi della mia avventura notturna, recuperando auto lasciate abbandonate sui marciapiedi di Milano. Gli stessi luoghi hanno tutta un'altra aria alle 5 del pomeriggio.

sabato 5 marzo 2011

Questi Presidenti del Consiglio!


QUIZZONE DA 100 PUNTI: TROVA IL PERSONAGGIO!
ULTIME NOTIZIE -
Xxxx sarà processato anche per peculato.
Ci telegrafano da Bologna, 16, ore 1:
La decisa domanda di autorizzazione a procedere contro l'on. Xxxx per peculato sarà certamente mandata alla presidenza della Camera dalla nostra Magistratura non appena terminerà l'istruttoria del processo iniziato per sottrazione di documenti in cui sono imputati Contadino, Perrone e forse altri...
L'istruttoria di detto processo procede con molta alacrità e lodevole zelo dei magistrati: ma, tenuto conto delle presenti feste o del lavoro che questa ancora richiede, non potrà essere chiusa prima della fine del corrente mese: cosicché è da presumersi che solo verso i primi di maggio la domanda sarà presentata e discussa alla Camera.
Mi consta che lo scopo di questo indugio nell'invio della domanda a procedere sia che la Magistratura crede riscontrare nell'istruttoria, ormai finita, del processo per sottrazione, fatti tali da cui emergeranno maggiori prove della colpabilità del Xxxx, cosi da rendere vieppiù giustificate la domanda del magistrato e la necessità di essere autorizzato a procedere.
Ho motivo poi di credere che sia riuscito sfavorevole al Xxxx, ed abbia perciò non poco impressionato la Magistratura il fatto che Xxxx a Bologna abbia prodotta la nota ricevuta di L. 105,000 del Favilla, mentre negli interrogatorii di Napoli avrebbe detto che mai aveva avuti rapporti col Favilla. È vero che nel produrre il documento lo volle giustificare dicendo che aveva preso quel denaro per necessità di governo!
Mi risulta positivo che è stato spiccato contro Perrone e Contadino ed altri mandato di comparizione pel noto processo di sottrazione di documenti.
A. Quale noto Presidente del Consiglio italiano si nasconde dietro la sigla on. Xxxx?
B. In quali giorno mese ed anno, e su quale noto quotidiano, è stato pubblicato questo sferzante pezzullo?