lunedì 27 ottobre 2014

Siri, la Weltanschauung.

Che Siri emerge da un dialogo approfondito con la protagonista dei nostri comandi vocali? 

Una personalità talvolta cordiale, ma più spesso schiva, testarda, molto gelosa della propria privacy e che si esprime in un modo molto distante dal nostro. Nonostante il nostro approccio amichevole, solo occasionalmente ricambiato, Siri resta una figura pragmatica, ma altera, fredda (non basta rivolgersi a noi con il nome di battesimo per scaldare la conversazione), un po' cerchiobottista e con un immaginario degno di una nerd scorbutica e illetterata. Ma vediamo in dettaglio.

Ispida, ma ben consapevole della natura delle proprie origini


e di conseguenza molto schiva nel raccontare le proprie preferenze,




i propri sogni,




e i propri affetti





esclusa, con una piacevole sorpresa, l'amicizia,



Siri resta comunque molto sulla difensiva quando si cerca di conoscere la sua situazione sentimentale



o di ottenere qualche dato in più sul suo aspetto e sulla sua anagrafe.




Anche in politica resta molto sulle sue.


 


Orgogliosa nel rivendicare la propria conoscenza delle lingue,


Siri sembra invece dimenticare le proprie stesse esigenze, come quella di un buon backup ogni tanto, 



ma soprattutto mostra di ignorare il suo problema numero uno di tutto il mondo iPhone: quello della batteria,






come ben dimostrano, tra l'altro, l'indicatore in alto a destra nella foto e l'orario al centro.

Tutto sommato più sano il suo rapporto con il denaro. 



Richiesta di fornire una prestazione artistica, Siri ha rinunciato alla prova della canzone accampando scuse puerili, 



ha tentato di arrangiare qualcosa a livello di racconto umoristico pescando nella propria biografia e in quella dei suoi amici, 




mentre si è almeno impegnata nella prova di poesia in cui, dopo un primo rifiuto,


ha mostrato in qualche caso conoscenza della tradizione, tenerezza e autoironia,

 


ma cadendo miseramente nel finale su un plagio di Corrado Guzzanti al quale suggeriamo di chiedere le royalties alla Apple.



Su richieste più semplici invece Siri ha mostrato un ottimo senso della realtà

e un grande pragmatismo anche se con esiti finali contraddittori.


Insomma, nonostante tutti i suoi sforzi, Siri per quanto utile, non è, e probabilmente non sarà mai, una di noi.

mercoledì 22 ottobre 2014

Pensioni il 10 del mese: bufala, disinformatia, retromarcia o astuta manovra?


Oggi sono molto stanco e molto pigro: così questo post non ha l'obiettivo di esprimere una posizione articolata, frutto di qualche quarto d'ora di ricerca, ma quello di richiedere direttamente la soluzione di un quiz a chi la conosce. Voglio fare come chi va a sbirciare l'ultima pagina della Settimana Enigmistica.

La premessa del quiz è questa: da ieri fino alle prime ore di stamattina tutti i mezzi di informazione erano gonfi di dettagli sulla notizia che secondo la prossima legge di stabilità le pensioni sarebbero state pagate il 10 di ogni mese anziché il primo, a partire da gennaio 2014. Alla notizia faceva eco il prevedibile corredo di proteste dei sindacati ed associazioni consumatori. Un esempio è questo lancio dell'ANSA, ma se ne possono trovare a bizzeffe.

Oggi a Caterpillar AM (vedi podcast), io ho ipotizzato in versi che si trattasse di una astutissima manovra per far contenti anche i pensionati, tra i pochi esclusi dalla pioggia degli 80 euro. Prima li spaventi con questa notizia, poi dici che non è vero, e loro provano un grande sollievo. Non è come riceve 80 euro, ma sono comunque piccole soddisfazioni. E soprattutto a te, Governo, costa zero. Come si faceva nelle famiglie poverissime: poco prima di Natale si sequestravano tutti i giocattoli che poi riapparivano il 25 dicembre sotto l'albero.

Ed ecco, guarda un po', che poche veniamo a sapere dall'INPS  (vedi La Stampa qui) che in effetti il grosso dei pensionati è salvo: "Solo chi ha la doppia pensione Inps-Inpdap (circa 800.000 persone) la riceverà, dall’anno prossimo, il 10 del mese. Gli altri 15 milioni la riceveranno come ora, il 1 se la pensione è Inps, il 16 se hanno un assegno Inpdap. Lo fa sapere l’Inps".

Ora la domanda del quiz: Ieri chi ha diffuso la notizia per primo? Su quale pezzo di carta si basava? Un documento ufficiale del governo? E lo ha letto bene o lo ha letto male, magari operando inferenze indebite? Oppure erano solo indiscrezioni? E se sì perché suscitare allarme? Magari per lanciare al meglio la protesta sindacale del 25? Oppure ancora era l'astuta manfrina del Governo, pianificata fin dall'inizio per fornire sollievo a costo zero? O semplicemente una marcia indietro a fronte dell'alzata di scudi? Chi mi aiuta?


Foto amatoriale (mia): Venezia, ponte dell'Accademia, lunedì 29 settembre, la flottiglia di George Clooney e signora vola verso il matrimonio.


Pensioni il 10 del mese. Cosa era?

lunedì 20 ottobre 2014

Confessioni di un disertore

Lo ammetto, per anni sono stato un discreto provocatore in ambito calcistico. Prima la radio, e in seguito i social network, mi hanno dato la possibilità di esercitarmi su scala più ampia nella raffinatissima arte dello sfottò (sia fatto che subìto): una pratica appresa fin dai tempi della scuola elementare. Non soltanto quando la mia squadra, l'Inter, vinceva, ma anche, e soprattutto, quando quelle degli altri perdevano contro avversari terzi, non mancava mai la mia punturina di spillo.

Va detto che, a differenza di alcuni miei amici, anche negli anni in cui l'Inter vinceva tutto, ho ridotto esponenzialmente i messaggi di sfottò a singole persone. E anche più tardi, ad esempio, quando la Juve perdeva contro il Galatasaray, mi limitavo a cambiare la foto del mio profilo Facebook con quella di Sneijder, (l'interista di un tempo, ma ancora idolo assoluto), che aveva infranto per l'ennesima volta il sogno europeo dei bianconeri, senza andare a sfruculiare gli altri sulla propria pagina.

Non ho mai dato, come ho visto fare, degli sfigati o dei poveretti ai tifosi di squadre che non hanno mai vinto nulla e, credo, nemmeno direttamente dei "ladri" ai tifosi juventini (anche se mi davano fastidio quelli di loro che, pur ammettendo le malefatte moggiane, le giustificavano; piuttosto preferivo quelli che, come Travaglio, se ne vergognavano, oppure persino quelli che, per affetto cieco da genitore innamorato della propria creatura, le negavano persino a se stessi; ma quelli che le ammettevano e le giustificavano o, addirittura se ne bullavano, ai miei occhi compartecipavano all'errore).

Oggi però, posso dirlo con la massima eleganza, ho deciso che comunque mi sono rotto il cazzo. La prossima volta che la Juventus (o il Milan) perderà (o vincerà) non dirò niente. Ho deciso che il mio tempo a disposizione per queste cose è finito. Riconosco senza problemi gli aspetti positivi del ruolo sociologico ricoperto dal futbol nel nostro paese, anche solo come argomento di familiarizzazione tra sconosciuti, ma mi sono francamente sfinito alla morte di passare i lunedì a discutere su quanti dei fischi di Rocchi in Juventus-Roma siano stati appropriati e quanti no. E sono stanco di vedere alcune delle migliori menti della mia generazione (ma soprattutto molte delle peggiori) applicarsi in esercizi puerili e sterili. Ho visto troppo spesso gente mediocre alzare la cresta con persone rispettabilissime, solo perché la propria squadra aveva vinto, cercando una rivincita simbolica alla propria pochezza umana e intellettuale, dimenticando che le prodezze di Maradona, Milito, Van Basten o Tevez, nulla aggiungevano e nulla toglievano al proprio valore, che rimaneva quello che era, anzi scendeva ulteriormente, trascinato in basso dalla polemica e dal livore. In questo i social network funzionano da moltiplicatore al ribasso. Ho visto celebri comici, in preda all'ira per una sconfitta, non riuscire a cogliere l'ironia della gente comune e giornalisti stimatissimi (non da me) twittare di goduria perché la propria squadra vinceva per un errore arbitrale (“così gli altri rosicano ancora di più”).

Per persone di questo tipo (quando ancora mi occupavo di queste cose, cioè fino a poche ore fa) non ho mai avuto rispetto. Per me la vittoria esemplare, quella che mi fa godere di più, non è quella ottenuta grazie a un rigore inventato o a un gol in fuorigioco, ma, al contrario, quella raggiunta dopo aver subito qualche torto arbitrale (a mero titolo di esempio, quella di due anni fa allo Juventus Stadium quando la Juve segnò un gol in fuorigioco dopo 18 secondi, venne graziata con un'inspiegabile mancata attribuzione di un secondo giallo a Lichtsteiner, eppure perse 1-3 contro l'Inter. Se avessimo vinto noi 0-1 per un gol in fuorigioco dopo 18 secondi mi sarebbe piaciuto infinitamente meno). Ma ognuno ha i sogni che si merita. In ogni caso il mio tempo a disposizione per queste cose è finito.

In questo forse aveva capito tutto mia figlia Marta che, dopo un'infanzia nerazzurra, per evitare di perdere tempo in discussioni inutili a scuola tra interisti, milanisti e juventini, ha scelto l'unica squadra tra le prime dieci della Serie A per cui nessuno tifa dalle nostre parti: cioè la Lazio “così mi lasciano stare” (il papà nerazzurro ha un po' sofferto, ma il liberale che c'è in me ha goduto perché non ho mosso un dito per farle cambiare idea).

Probabilmente qualcuno penserà che scrivo questo perché l'Inter va male e negli ultimi giri mi tocca più prendere sfottò che erogarne ad altri. E forse, proprio per evitare questa critica, avrei aspettato a postare questo se l'Inter ieri sera avesse perso, proprio per non essere frainteso. Ma ieri sera è stato un entusiasmante 2-2 con il Napoli, 78 minuti di buona Inter, seguiti da 12 (più recupero) della solita pazza Inter. Sempre pazza, mai banale! Abbiamo (anzi, hanno) preso ancora un gol, l'ennesimo, forse il terzo o il quarto in un anno solare, originato dal pressing sul nostro difensore più arretrato con la palla tra i piedi. Ma abbiamo (hanno) fatto anche vedere di cosa sono capaci. Continuerò a seguire il calcio, a entusiasmarmi per qualche bella giocata di Kovacic o di Guarin, a invelenirmi per qualche mancata chiusura di Ranocchia o di Vidic, continuerò a pensare, e a dire, che molto probabilmente Mazzarri non è l'allenatore che ci serve e che, per quanto mi riguarda, all'Inter, possono essere anche tutti stranieri, come quando abbiamo vinto la Champions League (l'unico italiano, Materazzi, nella finale entrò a due minuti dal fischio conclusivo, ma non toccò palla). Ma da ora in poi mi occuperò quasi solo dei miei amati nerazzurri. Non parteciperò più a polemiche, sfottò, né a sterili dibattiti su moviole e fuorigioco e gol-fantasma, anche perché, incaponendosi a non introdurre la tecnologia a supporto degli arbitri, è chiaro che sono loro che ci vogliono così: loro (da Blatter in giù) a fare del giocattolo-calcio quello che vogliono e noi a perdere tempo il sabato sera allo stadio, davanti alla tv o su twitter e il lunedì mattina alla macchinetta del caffè o su facebook.

Adesso basta e, visto che sarà dura tenere fede a questi propositi, se sei mio amico, beh, allora non tirarmi in mezzo, “non rompermi i coglioni, per me c'è solo l'Inter”.


foto da La Gazzetta dello Sport

lunedì 13 ottobre 2014

Morrissey's World Peace Is None Of Your Business is part of my business - (A review)

Per prepararmi dignitosamente al concerto di giovedì sera a Milano e approfittando del lungo viaggio di rientro dall'Overtime Festival di Macerata, ho ascoltato ripetutamente l'ultimo album di Morrissey, World Peace Is None of Your Business.

Tranquillizzo subito i miei quattro lettori: non ho alcuna intenzione di trasformarmi in critico musicale, ma voglio divertirmi a farlo per una volta, soprattutto per affetto (diciamo pure amore) nei confronti del Moz e anche per cercare di mettere un po' di ordine tra recensioni (vedi link in coda) piuttosto contraddittorie: anche se la vulgata racconta di una critica abbastanza perplessa, si possono trovare in rete non poche review entusiastiche, tanto che il risultato complessivo sarebbe omologabile a un pareggio, o persino a una vittoria di misura.

Le critiche prevalenti si soffermano sull'eccesso di toni spagnoleggianti e sull'eccessiva durata di alcuni brani, specie di un paio di brani non particolarmente riusciti, come se il Moz avesse tentato di convincerci sulla qualità dei pezzi prolungandone la somministrazione. Cosa che, chiaramente, non funziona. Va detto che nell'intero corso della sua carriera solistica il nostro ci aveva già regalato cinque brani monstre sopra i sette minuti e mezzo: e assieme a due piccoli capolavori come Late Night, Maudlin Street e Life Is a Pigsty, in questo novero (che comprende anche la quasi title-track di Southpaw Grammar e la stilosa, ma abbastanza inutile, cover di Moon River) si staglia The Teachers Are Afraid Of The Pupils (ben 11:20!), brano meno riuscito dei primi due, ma che si fa se non altro apprezzare per il testo e per l'appropriata cupezza dell'orchestrazione. Ma questi erano i brani oversize del passato. I'm Not A Man, la lunga traccia numero 3 dell'ultimo album, invece alterna una strofa di scarsa personalità a un ritornello decisamente brutto, con lo statement del titolo ripetuto ossessivamente sul battere delle casse, quasi duplicando gli esiti tutto sommato sgradevoli di It's Not Your Birthday Anymore. Persino l'esile spunto del testo (che tanto entusiasma il recensore di Repubblica): “se questa è l'umanità, allora io non sono un uomo” (così come Gaber non si sentiva italiano), viene tirato via con una mera enunciazione del concetto preceduta da un'elencazione asindetica di cattivi esempi dell'uomo (ma diciamo pure del maschio) del giorno d'oggi.

Senza arrivare ai 7:49 di questa I'm Not A Man, altri quattro brani (tra i dodici totali dell'album, non ho ancora sentito i sei dell'edizione deluxe) supereranno i cinque minuti, ma partiamo dall'inizio.

L'album si apre con la title-track. Anche qui, come in I'm Not A Man, la strofa ha un andamento giocoso pur trattando di temi tosti come l'esproprio del destino dei cittadini operato dalla politica fino all'esito bellico (incarnato, nel testo, in un elenco di nazioni). Gli spunti inizialmente sarcastici “Work hard and sweetly pay your taxes / Never asking what for” e in seguito drammatici delle liriche qui però si conciliano molto meglio con la progressione verso il rock. Tra i brani passati il parente più prossimo, ma solo per i temi toccati, è America is not the World, e si potrebbe aprire un discorso su quanto sia presente, nella poetica di Morrissey la parola world (which is, by the way, full of crashing bores).

Neal Cassady Drops Dead
è, a detta di molti, uno dei brani più riusciti, se non addirittura il più riuscito dell'album. Rievocando la sventura del più tormentato tra i protagonisti della Beat Generation, il brano non rinuncia ad aprire con brevissimo trillo giocoso di campanelli che ci introduce a un rock lento piuttosto cupo. Il testo vero e proprio occupa meno di metà dei 4:05 della canzone, da 0:07 a 1:49. Dopodiché una corrosiva chitarra distorta e, a 2:10, una funeraria chitarra flamenca lanciano splendidamente la coda con l'estenuato ladeda del Moz, se possibile ancora più dolente ed evocativo della prima parte della canzone, forse uno dei passaggi più coinvolgenti del disco (e qui concordo con il resto della critica).
Avendo già trattato della traccia 3, saltiamo a Istanbul. Il Moz ci aveva già portato in Medio Oriente con I Will See You In Far Off Places. Qui l'esperienza, anche musicalmente, è meno esotica (gli echi arabeggianti appena accennati: del resto Istanbul è ancora Europa e la Turchia non è un paese arabo), ma tutto sommato piacevole. Ancora una volta il tono del cantato sembra meno drammatico del tema proposto (un ragazzo-padre cerca il figlio, orfano di madre dalla nascita, fino al tragico esito finale) ma di questa storica attitudine del Moz, parlo più sotto. Istanbul è un brano abbastanza centrato, musicalmente a metà strada tra Mexico e il già citato I Will See You In Far Off Places.

Un recensore ha scelto la traccia 5, Earth Is The Lonely Planet, come il peggior brano dell'album. L'accusa è ancora una volta l'eccessiva presenza di chitarre spagnoleggianti. Io non sono affatto d'accordo e, anzi, concordo con chi l'ha scelto come singolo. Il brano, per quanto tipicamente mozziano solo nel testo (del resto Gustavo Manzur, della sua band, è un autore nuovo per il nostro) ha un suo fascino immediato. Anche l'uso della voce, almeno nell'attacco iniziale, unita all'anomalia della chiatarra, per la prima volta dopo tanti anni ha ingannato anche un fedelissimo come me e al primo ascolto ho riconosciuto il timbro di Morrissey solo dopo una dozzina di secondi. In ogni caso nel viaggio di ritorno da Macerata è stato senz'altro questo il brano più gettonato.

Staircase at the University, traccia 6, ci racconta di una ragazza, spinta all'over-performance scolastica dalla famiglia (in particolare, ancora una volta, dai maschi della famiglia: padre e ragazzo) e che si suicida all'università. Un brano che ricorda per certi versi When Last I Spoke To Carol, (guarda caso anche là muore una ragazza), ma stavolta, per assurdo, gli stilemi tex-mex, sono più presenti nell'antecedente del 2009, mentre nel pezzo attuale abbiamo solo una chitarra latina nella coda. Un altro brano musicalmente abbastanza riuscito (anche se è il primo dell'album non incluso nella setlist del concerto di Lisbona che ha aperto il tour Europeo), ma che forse si poteva risolvere in minor tempo dei 5:27 totali. Lo stesso When Last I Spoke To Carol, tutto sommato migliore, durava due minuti di meno.

Ed ecco riapparire subito le note spagnoleggianti, nel senso più tradizionale del termine con le trombe della corrida che aprono The Bullfighter Dies. Che Morrissey sappia conciliare una melodia allegra con il tema della morte lo sappiamo dai tempi di Cemetry Gates e di Girlfriend In a Coma. Non ci deve stupire che questo stilema appaia anche in quest'album, dove muore qualcuno in almeno quattro, ma forse più, delle dodici canzoni. Qui il contrasto ha ancora maggior senso visto che, se muore il torero, si salva il toro che, per un animalista estremo come il Moz, equivale a un lieto finale. Senza arrivare ai livelli di Johnny Marr anche qui, come in Girlfriend In a Coma, si percepisce il pizzicato giocoso della chitarra, ma tra i brani passati di Morrissey, il riferimento musicale più prossimo è l'ottima I Can Have Both (e forse un po' anche You're the One For Me, Fatty).

Fin qui l'unico brano oggettivamente un po' noioso è stato I'm Not A Man, da questo punto in poi la gradevolezza dell'album scende inesorabilmente. L'ultima a convincere in parte è forse proprio Kiss Me A Lot, anche se personalmente ho sempre avuto una idiosincrasia verso le canzoni che ripetono continuamente il titolo nel ritornello come (Some Girls Are Better Than Others). Non male invece le trombe, ancora latine, mariachi, che accompagnano lo stesso ritornello regalandogli un po' di profondità emotiva, altrimenti assente. Il titolo, peraltro, è la traduzione letterale della più famosa canzone messicana, Besame Mucho, scritto nel 1940 da Consuelo Velázquez e coverizzato da un intero pianeta, a partire dai Beatles. Anche qui nel finale della strofa si sentono echi da When Last I Spoke To Carol.

Pollice verso plebiscitario della critica italiana per Smiler With Knife, che dura la bellezza di 5:17. In effetti la musica non è niente di che. I fan invece ci inducono a soffermarci sull'ottima qualità del testo, assolutamente criptico e, anzi, forse volutamente fuorviante a partire dall'indeterminata attinenza con il romanzo che ne origina il titolo The Smiler with the Knife di Nicholas Blake. Molti sottilineano che si tratta forse del primo testo di Morrissey, dove oltre a qualche rima è presente anche una certa attenzione al metro (prevalenza di settenari). Per tematica può ricondursi a Jack The Ripper (che però sembra essere di molto superiore). Certo che finché non abbiamo capito esattamente di cosa parla (una cospirazione, un incontro sessuale, un delitto - e qualora: metaforico o reale? - oppure le tre cose assieme?) facciamo fatica a farci un'opinione. Ma vedo che la stessa difficoltà viene incontrata persino dai madrelingua e in parte mi consolo.

Un altro titolo incredibile, che si inserisce nella già ricca produzione di titoli inauditi di Morrissey, è Kick the Bride Down the Aisle che, a partire da un'ironica posizione maschilista e misogina, esorta gli uomini a non sposare un certo tipo di donna (o qualsiasi donna?) per evitarne le vessazioni matrimoniali. Il brano, come molti suoi confratelli non si fa mancare interventi di chitarra e tromba spagnoleggiante e poi, a 3:52, sembra rifarsi in maniera preoccupante alla coda di Please, Please, Please Let Me Get What I Want.


Un altro tema già percorso dai testi di Morrissey sono le carceri (Strangeways, Here We Are). Mountjoy è il carcere di Dublino. Per ora questo brano non mi ha molto impressionato né per testo, né per musica, anche se qualcuno ne ha sottolineato la rilevanza politica (relativamente all'indipendentismo irlandese). Ricorda, in peggio per quanto riguarda gli arrangiamenti, le due canzoni lunghe di Southpaw Grammar. Vedremo agli ascolti successivi. Ma non promette bene.

Oboe Concerto è un pezzo inutile. Peccato chiudere un album che alla fin dei conti non è così male, con una robetta così. La sola cosa rimarchevole è che Morrissey pronuncia “concerto”, correttamente, quasi come un italiano. E ci mancherebbe pure con tutto il tempo che è stato qui.


Alla fine di questo percorso, dopo 24 ore vissute con questo album, (ma alcune canzoni le conoscevo già) devo dire che per me la verità sta nel mezzo: né capolavoro, né obbrobrio, anche se, tra un anno, non so quante canzoni tratte da questo disco saranno incluse nelle 10, 20 o 30 canzoni di Morrissey che salverei da un diluvio universale. Probabilmente non molte.

Qui di seguito alcune recensioni "vere". Mi limito a una selezione di quelle italiane, cercando di ordinarle (a occhio) dalle più positive alle più negative: Panorama, ilsussidiario.netOndarock.it, sentireascoltare.comlospettacolo.it, distorsioni.net, outsidermusica.comrockol.it, deerwaves.com, indiesforbunnies.com, ilfattoquotidiano.it

sabato 4 ottobre 2014

Sulo a Napule 'o ssanno fá?


Non ho viaggiato moltissimo, ma in tutti i paesi che ho visitato mi è capitato di bere con discreta soddisfazione del caffè. A Londra, Parigi, Chicago, Istanbul, Pechino, Cabo San Lucas e persino a Bolzano. Certo ogni volta era diverso, non sempre buonissimo, ma tutto sommato devo dire che i peggiori caffè li ho bevuti in Italia. 

Certo, la proliferazione degli Starbucks offre facili contro-argomentazioni a chi non la pensa come me, ma questa cosa che il vero caffè lo si possa gustare solo a Napoli, e neanche in tutta Napoli, ma solo alla Caffettiera in Piazza dei Martiri, ed esclusivamente se ordinato in piedi al bancone, bollente, senza zucchero, con i 20 centesimi nel piattino e con il bicchiere di acqua fresca, l'ho sempre trovata molto provinciale.

Con gli anni ho iniziato ad apprezzare i vari tipi di caffè, certo tutti "più lunghi" di quello italiano, ma molto diversi l'uno dall'altro e comunque interessanti. Ricordo che alla mensa IBM di Rochester, Minnesota, a un certo punto installarono un banchetto che distribuiva il caffè espresso. I miei colleghi locali lo guardarono per qualche giorno con sospetto, poi li invitai ad assaggiarlo e, superata la costernazione per la quantità di liquido distribuito, alla fine lo gradirono, o forse fecero solo finta di gradirlo, per compiacermi.

Io nel frattempo avevo iniziato ad apprezzare il loro beverone. Tanto che negli alberghi ora la mattina per fare colazione cerco sempre quello lì. All'estero lo si trova sempre, mentre in Italia per farmi capire dai camerieri chiedo "il caffè dei tedeschi" o "il caffè lungo nel bricchetto". Se chiedo il black coffee non capiscono e se chiedo quello americano, quelli che non hanno il beverone, credono di accontentarmi portandomi un espresso schifoso allungato con dell'acqua bollente. Ma fortunatamente molti alberghi hanno "il caffè dei tedeschi".

In questi giorni, sto ad esempio gustandomi il caffè puro arabica che ci ha portato da Giacarta la nostra amica Yuli, lo lascio in infusione qualche minuto, poi lo filtro, anche se la regola prevede di lasciarlo solo depositare, aggiungo zucchero e lo bevo con molto piacere. E per irritare ancora di più i puristi lo metto nella tazza del Nescafè Red Cup, che è pure, per me, molto buono. Come è buonissimo anche quello turco che ti servono sulla splendida piazzetta di Ortaköy guardando il Bosforo, e certo, quello di piazza dei Martiri, ma persino alcuni di quelli di Starbucks.