lunedì 13 ottobre 2014

Morrissey's World Peace Is None Of Your Business is part of my business - (A review)

Per prepararmi dignitosamente al concerto di giovedì sera a Milano e approfittando del lungo viaggio di rientro dall'Overtime Festival di Macerata, ho ascoltato ripetutamente l'ultimo album di Morrissey, World Peace Is None of Your Business.

Tranquillizzo subito i miei quattro lettori: non ho alcuna intenzione di trasformarmi in critico musicale, ma voglio divertirmi a farlo per una volta, soprattutto per affetto (diciamo pure amore) nei confronti del Moz e anche per cercare di mettere un po' di ordine tra recensioni (vedi link in coda) piuttosto contraddittorie: anche se la vulgata racconta di una critica abbastanza perplessa, si possono trovare in rete non poche review entusiastiche, tanto che il risultato complessivo sarebbe omologabile a un pareggio, o persino a una vittoria di misura.

Le critiche prevalenti si soffermano sull'eccesso di toni spagnoleggianti e sull'eccessiva durata di alcuni brani, specie di un paio di brani non particolarmente riusciti, come se il Moz avesse tentato di convincerci sulla qualità dei pezzi prolungandone la somministrazione. Cosa che, chiaramente, non funziona. Va detto che nell'intero corso della sua carriera solistica il nostro ci aveva già regalato cinque brani monstre sopra i sette minuti e mezzo: e assieme a due piccoli capolavori come Late Night, Maudlin Street e Life Is a Pigsty, in questo novero (che comprende anche la quasi title-track di Southpaw Grammar e la stilosa, ma abbastanza inutile, cover di Moon River) si staglia The Teachers Are Afraid Of The Pupils (ben 11:20!), brano meno riuscito dei primi due, ma che si fa se non altro apprezzare per il testo e per l'appropriata cupezza dell'orchestrazione. Ma questi erano i brani oversize del passato. I'm Not A Man, la lunga traccia numero 3 dell'ultimo album, invece alterna una strofa di scarsa personalità a un ritornello decisamente brutto, con lo statement del titolo ripetuto ossessivamente sul battere delle casse, quasi duplicando gli esiti tutto sommato sgradevoli di It's Not Your Birthday Anymore. Persino l'esile spunto del testo (che tanto entusiasma il recensore di Repubblica): “se questa è l'umanità, allora io non sono un uomo” (così come Gaber non si sentiva italiano), viene tirato via con una mera enunciazione del concetto preceduta da un'elencazione asindetica di cattivi esempi dell'uomo (ma diciamo pure del maschio) del giorno d'oggi.

Senza arrivare ai 7:49 di questa I'm Not A Man, altri quattro brani (tra i dodici totali dell'album, non ho ancora sentito i sei dell'edizione deluxe) supereranno i cinque minuti, ma partiamo dall'inizio.

L'album si apre con la title-track. Anche qui, come in I'm Not A Man, la strofa ha un andamento giocoso pur trattando di temi tosti come l'esproprio del destino dei cittadini operato dalla politica fino all'esito bellico (incarnato, nel testo, in un elenco di nazioni). Gli spunti inizialmente sarcastici “Work hard and sweetly pay your taxes / Never asking what for” e in seguito drammatici delle liriche qui però si conciliano molto meglio con la progressione verso il rock. Tra i brani passati il parente più prossimo, ma solo per i temi toccati, è America is not the World, e si potrebbe aprire un discorso su quanto sia presente, nella poetica di Morrissey la parola world (which is, by the way, full of crashing bores).

Neal Cassady Drops Dead
è, a detta di molti, uno dei brani più riusciti, se non addirittura il più riuscito dell'album. Rievocando la sventura del più tormentato tra i protagonisti della Beat Generation, il brano non rinuncia ad aprire con brevissimo trillo giocoso di campanelli che ci introduce a un rock lento piuttosto cupo. Il testo vero e proprio occupa meno di metà dei 4:05 della canzone, da 0:07 a 1:49. Dopodiché una corrosiva chitarra distorta e, a 2:10, una funeraria chitarra flamenca lanciano splendidamente la coda con l'estenuato ladeda del Moz, se possibile ancora più dolente ed evocativo della prima parte della canzone, forse uno dei passaggi più coinvolgenti del disco (e qui concordo con il resto della critica).
Avendo già trattato della traccia 3, saltiamo a Istanbul. Il Moz ci aveva già portato in Medio Oriente con I Will See You In Far Off Places. Qui l'esperienza, anche musicalmente, è meno esotica (gli echi arabeggianti appena accennati: del resto Istanbul è ancora Europa e la Turchia non è un paese arabo), ma tutto sommato piacevole. Ancora una volta il tono del cantato sembra meno drammatico del tema proposto (un ragazzo-padre cerca il figlio, orfano di madre dalla nascita, fino al tragico esito finale) ma di questa storica attitudine del Moz, parlo più sotto. Istanbul è un brano abbastanza centrato, musicalmente a metà strada tra Mexico e il già citato I Will See You In Far Off Places.

Un recensore ha scelto la traccia 5, Earth Is The Lonely Planet, come il peggior brano dell'album. L'accusa è ancora una volta l'eccessiva presenza di chitarre spagnoleggianti. Io non sono affatto d'accordo e, anzi, concordo con chi l'ha scelto come singolo. Il brano, per quanto tipicamente mozziano solo nel testo (del resto Gustavo Manzur, della sua band, è un autore nuovo per il nostro) ha un suo fascino immediato. Anche l'uso della voce, almeno nell'attacco iniziale, unita all'anomalia della chiatarra, per la prima volta dopo tanti anni ha ingannato anche un fedelissimo come me e al primo ascolto ho riconosciuto il timbro di Morrissey solo dopo una dozzina di secondi. In ogni caso nel viaggio di ritorno da Macerata è stato senz'altro questo il brano più gettonato.

Staircase at the University, traccia 6, ci racconta di una ragazza, spinta all'over-performance scolastica dalla famiglia (in particolare, ancora una volta, dai maschi della famiglia: padre e ragazzo) e che si suicida all'università. Un brano che ricorda per certi versi When Last I Spoke To Carol, (guarda caso anche là muore una ragazza), ma stavolta, per assurdo, gli stilemi tex-mex, sono più presenti nell'antecedente del 2009, mentre nel pezzo attuale abbiamo solo una chitarra latina nella coda. Un altro brano musicalmente abbastanza riuscito (anche se è il primo dell'album non incluso nella setlist del concerto di Lisbona che ha aperto il tour Europeo), ma che forse si poteva risolvere in minor tempo dei 5:27 totali. Lo stesso When Last I Spoke To Carol, tutto sommato migliore, durava due minuti di meno.

Ed ecco riapparire subito le note spagnoleggianti, nel senso più tradizionale del termine con le trombe della corrida che aprono The Bullfighter Dies. Che Morrissey sappia conciliare una melodia allegra con il tema della morte lo sappiamo dai tempi di Cemetry Gates e di Girlfriend In a Coma. Non ci deve stupire che questo stilema appaia anche in quest'album, dove muore qualcuno in almeno quattro, ma forse più, delle dodici canzoni. Qui il contrasto ha ancora maggior senso visto che, se muore il torero, si salva il toro che, per un animalista estremo come il Moz, equivale a un lieto finale. Senza arrivare ai livelli di Johnny Marr anche qui, come in Girlfriend In a Coma, si percepisce il pizzicato giocoso della chitarra, ma tra i brani passati di Morrissey, il riferimento musicale più prossimo è l'ottima I Can Have Both (e forse un po' anche You're the One For Me, Fatty).

Fin qui l'unico brano oggettivamente un po' noioso è stato I'm Not A Man, da questo punto in poi la gradevolezza dell'album scende inesorabilmente. L'ultima a convincere in parte è forse proprio Kiss Me A Lot, anche se personalmente ho sempre avuto una idiosincrasia verso le canzoni che ripetono continuamente il titolo nel ritornello come (Some Girls Are Better Than Others). Non male invece le trombe, ancora latine, mariachi, che accompagnano lo stesso ritornello regalandogli un po' di profondità emotiva, altrimenti assente. Il titolo, peraltro, è la traduzione letterale della più famosa canzone messicana, Besame Mucho, scritto nel 1940 da Consuelo Velázquez e coverizzato da un intero pianeta, a partire dai Beatles. Anche qui nel finale della strofa si sentono echi da When Last I Spoke To Carol.

Pollice verso plebiscitario della critica italiana per Smiler With Knife, che dura la bellezza di 5:17. In effetti la musica non è niente di che. I fan invece ci inducono a soffermarci sull'ottima qualità del testo, assolutamente criptico e, anzi, forse volutamente fuorviante a partire dall'indeterminata attinenza con il romanzo che ne origina il titolo The Smiler with the Knife di Nicholas Blake. Molti sottilineano che si tratta forse del primo testo di Morrissey, dove oltre a qualche rima è presente anche una certa attenzione al metro (prevalenza di settenari). Per tematica può ricondursi a Jack The Ripper (che però sembra essere di molto superiore). Certo che finché non abbiamo capito esattamente di cosa parla (una cospirazione, un incontro sessuale, un delitto - e qualora: metaforico o reale? - oppure le tre cose assieme?) facciamo fatica a farci un'opinione. Ma vedo che la stessa difficoltà viene incontrata persino dai madrelingua e in parte mi consolo.

Un altro titolo incredibile, che si inserisce nella già ricca produzione di titoli inauditi di Morrissey, è Kick the Bride Down the Aisle che, a partire da un'ironica posizione maschilista e misogina, esorta gli uomini a non sposare un certo tipo di donna (o qualsiasi donna?) per evitarne le vessazioni matrimoniali. Il brano, come molti suoi confratelli non si fa mancare interventi di chitarra e tromba spagnoleggiante e poi, a 3:52, sembra rifarsi in maniera preoccupante alla coda di Please, Please, Please Let Me Get What I Want.


Un altro tema già percorso dai testi di Morrissey sono le carceri (Strangeways, Here We Are). Mountjoy è il carcere di Dublino. Per ora questo brano non mi ha molto impressionato né per testo, né per musica, anche se qualcuno ne ha sottolineato la rilevanza politica (relativamente all'indipendentismo irlandese). Ricorda, in peggio per quanto riguarda gli arrangiamenti, le due canzoni lunghe di Southpaw Grammar. Vedremo agli ascolti successivi. Ma non promette bene.

Oboe Concerto è un pezzo inutile. Peccato chiudere un album che alla fin dei conti non è così male, con una robetta così. La sola cosa rimarchevole è che Morrissey pronuncia “concerto”, correttamente, quasi come un italiano. E ci mancherebbe pure con tutto il tempo che è stato qui.


Alla fine di questo percorso, dopo 24 ore vissute con questo album, (ma alcune canzoni le conoscevo già) devo dire che per me la verità sta nel mezzo: né capolavoro, né obbrobrio, anche se, tra un anno, non so quante canzoni tratte da questo disco saranno incluse nelle 10, 20 o 30 canzoni di Morrissey che salverei da un diluvio universale. Probabilmente non molte.

Qui di seguito alcune recensioni "vere". Mi limito a una selezione di quelle italiane, cercando di ordinarle (a occhio) dalle più positive alle più negative: Panorama, ilsussidiario.netOndarock.it, sentireascoltare.comlospettacolo.it, distorsioni.net, outsidermusica.comrockol.it, deerwaves.com, indiesforbunnies.com, ilfattoquotidiano.it

2 commenti:

Anonimo ha detto...

il caro vecchio morrissey (che speriamo superi presto i suoi problemi di salute) ci regala il consueto album a due facce, 3-4 pezzi stupendi, altri lagnosi oltre modo. anche io sono rimasto perplesso di fronte alle influenze latine, in alcuni momenti sembra poter partire "don't let me be misunderstood" da un momento all'altro, eppure proprio "kiss me a lot" (sentito la prima volta in radio non riuscivo più a togliermelo dalla testa) e "earth is the..." sono i due pezzi meglio riusciti. del resto già nel 1999 quando aprendo repubblica vidi (con emozione) che veniva finalmente in concerto in italia con un tour chiamato "oye esteban" rimasi sconcertato, per me lui rappresentava l'essenza della englishness. l'ho visto in concerto allora all'alcatraz, e due anni fa agli arcimboldi, quest'anno ho saltato, i prezzi erano proibitivi.
alberto

Marco Ardemagni ha detto...

Quella sui riferimenti latini e sulla sua tipicità inglese degli esordi è una considerazione che ho sempre fatto anch'io.

In generale nei suoi testi ci sono sempre stati molti riferimenti geografici, ma all'inizio erano tutti molto british. Al massimo si spingeva alla book-toothed girl in Luxembourg. E mi domandavo se avrebbe fatto mai un riferimento non dico all'Italia, ma in generale alla cultura latina.

Poi invece... un'alluvione! Non solo è diventato un idolo della cultura latina, ma ha abbondantemente ricambiato (compreso il periodo di residenza a Roma e Ringleader of Tormentors etc. etc.), ma già prima con la California.

Ora tra Mexico, Paris e Scandinavia sembra che voglia coprire tutto il mondo con almeno una citazione.